L’onda – capitolo dieci

 

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Cosimina, la moglie giovanissima di Antonio il sacrestano, in piedi con le spalle addossate al muro della chiesa, si trovava avvolta in un vestitino a fiorellini bianchi e celesti  che aveva i bottoni slacciati nella parte del corpetto mentre sopra i suoi generosi seni scoperti stava, completamente avvinghiato, suo cugino Paolino.

Paolino si contorceva tutto ad occhi chiusi mentre con una mano si avventurava con impazienza sotto al vestito, tra le gambe della donna. Il continuo e progressivo crescendo dei loro mugolii cominciava a risuonare nell’aria fino a quando il grido acuto di Maria li fece interrompere di botto facendo ritornare i due fedifraghi bruscamente alla realtà.

Per un attimo si guardarono tutti e tre fissamente negli occhi spalancati dalla sorpresa e poi d’improvviso Cosimina con uno scatto velocissimo, simile a quello che fanno le blatte quando vengono sorprese a gironzolare impunemente nei bagni delle case, sgusciando da sotto schizzo’ fuori dalle braccia di Paolino e scappò in un lampo dentro alla canonica con i seni dolcemente traballanti.

Maria gridò allora al cugino, che prontamente si stava riallacciando i pantaloni:

“Figlio di cane ma cosa stai facendo? Ti sei dimenticato che a casa hai due bambini piccoli e uno appena nato e ancora in fasce? È questo il rispetto che porti alla tua famiglia e a quella santa donna di tua moglie che si ostina, immeritatamente, a replicarti sfornandoti i tuoi bambini? E poi, grandissimo cornuto, proprio qui nella chiesa benedetta? Dovevi profanare anche questo luogo sacro? All’inferno devi andare, a marcire fra i dannati per l’eternità “.

Paolino con aria contrita, cercando di calmarla, la supplicò :

” Per amore del cielo non dire niente a mia moglie! Lo sai quanto sono attaccato a lei ed alla mia famiglia. Ma sai, Maria, l’uomo è debole ed io mi sono trovato per caso in questa situazione, che non volevo veramente, te lo giuro!!”

A quelle parole la giovane non ci vide più e cominciò a colpirlo ripetutamente con la sua borsetta mentre lui, con le braccia protese in avanti, cercava di schivare i colpi. Poi gli gridò :

” E meno male che non volevi assolutamente!! E meno male!! Stai zitto che ci fai più bella figura” e nella foga acchiappo’ anche due belle  manciate di lunghe candele, accatastate su un tavolinetto accanto e pronte per essere messe da Cosimina dentro ai candelieri di metallo, e gliele lanciò addosso quasi una per una. Le candele si ruppero in tanti pezzi e caddero per terra formando un bitorzoluto manto bianco.

Restarono attoniti entrambi e, come se si fossero risvegliati da un brutto sogno, restarono muti. Paolino poi lentamente avanzò verso di lei e, guardandola negli occhi, le prese con cautela le mani dicendo con voce malferma:

“Ti prego non rovinare la mia famiglia, non dire niente. Non lo farò mai più!!”

Lei strattono’ con forza le sue mani sfilandole da quelle del cugino e, indicandogli un fazzoletto da naso che giaceva sul pavimento, rispose: “Non meriti affatto il mio silenzio ma lo farò per la tua famiglia e per quei teneri bambini che hanno il diritto di avere un padre. Anche se ancora non sanno che non vale niente! Ora butta via le candele, prenditi i tuoi stracci, lascia una generosa offerta di denaro nella cassettina delle offerte e vattene subito a casa. Se ti ripesco però ricordati che non avrò più pena di te.”

Maria girò in fretta i tacchi e poi si avviò mestamente, con le spalle ricurve in avanti, verso l’uscita della chiesa mentre sentiva di nuovo il cugino tramestare borbottando ma, questa volta, solo per rimettere le cose a posto.

La luce la colpì con forza sugli occhi lacrimanti appena uscita sul sagrato della chiesa e lei si senti’ sempre più affranta e sempre più con il cuore in pena e malvagio. Le sembrava quasi di poter toccare gli sguardi di riprovazione dei due Santi che, pur restando fissamente immobili nella loro nicchia, da dietro alle spalle la trafiggevano da parte a parte fino a spaccare in due il suo povero cuore. Non riusciva a liberarsi dai peccati e si chiedeva perché il destino le riservasse tali prove.

 

 

L’onda – capitolo nove

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La frescura  e l’odore d’incenso

L’alba stava spuntando di nuovo e Maria si sentiva molto stanca dopo una notte insonne passata a contemplare la volta celeste che le sembrava una cartolina stampata con appiccicati brillantini dorati che sbarluccicavano ad intermittenza.

Il suo cuore le pareva sempre più pesante perché mai avrebbe pensato di poter essere violenta con qualcuno anche se si ripeteva che non c’era altro modo per costringere Menicuzzu a lasciare andare Turi.

Continuava però a sentire il bisogno di chiedere con urgenza perdono alla Madonnina Santa e, con il suo perdono, di ripulirsi l’anima che sentiva torbida e malvagia.

Si vestì allora in fretta e andò a casa di Carmela che, ancora in camicia da notte, stava sorseggiando una enorme tazza di caffè seduta su un muretto con gli occhi socchiusi.

Maria sapeva che stava parlando con il creato e restò per un po’ immobile fino a quando l’amica, senza neanche riaprire gli occhi, le fece segno di sedersi e disse:

“Allora si può sapere che vuoi?”

Maria chiedendosi, come sempre, come facesse a vedere anche ad occhi chiusi, restò in piedi e disse:

” Ho bisogno che tu mi guardi Turi per un po’ di tempo a casa mia. Puoi farlo? “.

Carmela sospirò profondamente: ” E dove devi andare questa volta? “

” Voglio andare a chiedere perdono alla Madonnuzza Santa prima che in Chiesa arrivi qualcuno. Ho bisogno di pregarla in solitudine e in silenzio fino a quando non mi avrà restituito la pace nel cuore.” rispose Maria.

“Ti sentivi forse più in pace quando Menicuzzu prendeva a cinghiate Turi e lo faceva sanguinare? O forse quando, per cambiare, gli spezzava le ossa a bastonate? “.

Maria non sapeva più cosa fosse giusto o sbagliato ma sentiva di dovere andare in chiesa. Carmela apri gli occhi, la guardò poi si girò di lato e con la mano le fece cenno di andare sussurrando con voce roca:

” Ancora qua sei? “

Maria mentre il sole faceva ormai capolino in mezzo ai lentischi ed agli alberi di ulivo, si avviò con passo spedito verso la vecchia chiesa che era stata costruita a mano dagli abitanti del paese. Lungo la strada intravide Pietruzzu detto ” lo scaltro” che si era addormentato sopra al solito muretto, che ormai i paesani chiamavano con il suo nome, con un sorriso ebete sul volto che gli regalava un aspetto di intensa felicità.

Quando giunse sul sagrato della chiesa, Maria si senti’ già più sollevata ed ammiro’ con devozione le statue di gesso raffiguranti i due Santi che, dentro alle loro nicchie poste sulla facciata, rammentavano a tutti che quello era un luogo sacro.

Il massiccio portone era spalancato e dentro sembrava regnare una grande pace. Maria si legò un fazzoletto in testa ed attraversò il portone azzurro. Senti’ subito la frescura del luogo e aspiro’ l’odore di incenso che ancora aleggiava nell’aria, poi si diresse verso l’acquasantiera per farsi il segno della Croce.

Ad un tratto però senti’ uno strano trambusto frammezzato da gemiti soffocati che provenivano dal fondo della navata di sinistra, proprio dietro al confessionale.  Allarmata e tutta incuriosita allora Maria con passo leggero si avviò per capire cosa stesse succedendo.

Quando silenziosamente arrivò sul luogo incriminato spalancò gli occhi dalla sorpresa e a stento represse il grido che con prepotenza le saliva dal petto, incapace di credere a quello che vedevano i suoi occhi.

All’improvviso, in un giorno qualunque

 

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(Racconto breve)

Quando mi ha sorriso ho perso la speranza. Non subito. Ma quasi. Riconoscevo  quegli occhi, li avevo già visti troppe volte addosso a facce identiche alla sua. Persino le sue labbra piegate all’insù mi erano familiari. E il tono della voce, quasi incrinato dalla spasmodica ricerca di una personalità che, alla resa dei conti, poteva dirsi originale come l’annuncio di un’offerta speciale ripetuto dagli altoparlanti del supermercato. Ecco, proprio quella era l’unica cosa che le mancava. Un’etichetta con il codice a barre stampata sulla fronte: in alto il prezzo e, subito sotto, le istruzioni per l’uso del corpo. Un corpo talmente abituato a piegare le sue emozioni alla convenienza del momento da conservare ben poco di umano. Anche se non sempre era stato così.

Ricordo ancora quando eravamo piccole. Io e Lucia giocavamo a piedi scalzi sul marciapiede sporco e scomposto davanti alle nostre case fatiscenti. Le urla dentro parevano scardinare le porte ed io la abbracciavo ed affondavo il naso tra i riccioli duri e selvaggi dei suoi capelli odorando anche la speranza che si annidava nella nostra giovinezza. Una volta lei appoggiò il capo sul mio grembo e mi guardò dal basso verso l’alto per un lungo doloroso istante. I suoi occhi erano impauriti ma limpidi e tersi. Gli occhi di una bambina ingenua che ancora sperava che il domani potesse essere migliore e pieno di gioiose attese.

La ruspa ci sorprese invece sulla strada in un giorno di autunno ventoso e greve. Il vento sollevava i nostri sottili gonnellini mentre i calzettoni, ormai senza più elastico, rimanevano calati sulle caviglie. Poi la guardai a lungo mentre, stretta mano nella mano di una signora corpulenta, salì su una macchina blu agitando la mano minuta e sporca in segno di saluto. Riuscii ad intravvedere una sua lacrima fermarsi sul solco di un graffio che le attraversava una guancia e poi rotolare di colpo sul suo mento piccolo e aguzzo mentre mi guardava dal finestrino.

“Ciao Lucia, a presto!” le urlai rincorrendo  per un tratto di strada la macchina che poi voltò a destra in fondo al vialetto facendo turbinare un cumulo di foglie secche.

Ora quando mi ha sorriso ho perso la speranza.  La mia divisa, una delle tante di quel commissariato, non è servita a niente: l’ho indossata perché pensavo che così mi sarebbe stato più facile ritrovarla. L’ho cercata sempre perché dovevo ritrovare anche la mia innocenza. L’ho trovata, mi ha sorriso ed ho perso la  speranza.

L’onda – capitolo ottavo

 

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L’accordo fra il silenzio pieno dei rumori della natura

Il cemento del terrazzino era tutto spaccato e piccoli ciuffi di erba ingialliti spuntavano scomposti qua e là in mezzo alle foglie del fico, addossato alla parete scorticata della camera da letto, che la leggera brezza notturna aveva sparso ovunque.

Un coperchio di lamiera arrugginito giaceva per terra lontano da pozzo aperto sopra cui si trovava un secchio bucherellato agganciato ad una carrucola. Un gatto bianco ingrigito dalla vecchiaia guardava con occhi gialli e socchiusi Maria che cominciò a chiamare con voce stridula:

”  Menicuzzu  dove siete? Venite fuori che vi voglio parlare”.

Il silenzio pieno dei rumori della natura fu interrotto da quello soffocato di un greve russare ed allora Maria  entrò e trovò Menicuzzu che dormiva profondamente su un letto sgangherato e senza lenzuola. Il materasso era strappato e l’uomo giaceva con addosso i pantaloni, da cui spuntavano due piedi neri per la sporcizia, e con la testa inclinata di lato che metteva in risalto la pelle secca ed avvizzita del viso.

Alcune bottiglie vuote di vino sgocciolavano ancora abbandonate sul pavimento accanto al letto. Il caldo e il cattivo odore della stanza fecero girare la testa a Maria che si mise una mano sulla bocca per reprimere i conati di vomito che improvvisamente la assalirono.

Poi si fece coraggio e cominciò a scuotere l’uomo gridando:” Menicuzzu svegliatevi che vi devo parlare, avanti aprite gli occhi o vi prendo a timpulate !”.

Menicuzzu si svegliò e strabuzzo’ gli occhi tutto confuso poi la guardò in faccia, afferrò un bastone che teneva appoggiato contro al letto e cominciò a menare  colpi in aria alla rinfusa ululando:

” Che vuoi tu da me grandissima figlia di bottana. Che ci vieni a fare a casa mia, ti porta forse il diavolo?”.

Maria gli strappò con facilità il bastone dalle mani perché la forza e la vista dell’uomo erano indebolite dalla sbornia e gli sussurrò con ira:

” Voi il prepotente lo potete fare solo con i bambini ed anzi vi annuncio che da ora in poi avete smesso di farlo anche con loro. Se vi azzardate a toccare più vostro figlio vi giuro che la testa in due ve la spacco come fosse un melone! Anzi da ora in poi Turi viene a vivere con me e voi muto dovete restare. Se provate a venire a riprenderlo o a importunarlo per strada vi riempio di legnate. Alla larga da lui dovrete restare per sempre, avete capito?”

Menicuzzu si alzò al letto e, malfermo sulle gambe, si scagliò contro Maria e le sputò in faccia gridando:

“Ma tu chi sei, che vuoi? Quello è figlio mio e ci faccio quello che mi pare!”.

Maria asciugandosi il viso con un braccio sentì il sangue arrivarle alla testa ed una vena sulla tempia cominciò a pulsarle freneticamente. Accecata dalla rabbia lo afferrò per il collo e, dopo averlo fatto indietreggiare lentamente di alcuni passi, gli sbatté  poi la testa contro il muro. Infine con una mano lo schiaffeggiò violentemente fino a quando lui non gridò selvaggiamente :

“E va bene lo vuoi? Portatelo a casa tua però lo dovrai fare per sempre e non venire a chiedermi soldi per quel buono a niente che neanche sua madre è riuscito a salvare. Vattene e non fatevi più vedere!”.

Maria senti il corpo dell’uomo afflosciarsi per terra e lo guardò per lunghi istanti che le parvero un’eternità, fino a quando non riuscì a realizzare che respirava ancora e che si era di nuovo addormentato sul pavimento riprendendo anche a russare forte.

Si accorse poi di tremare come una foglia perché non aveva mai percosso nessuno in vita sua e si sentiva strana ed anche smarrita. Non riusciva a prendersi le mani e neanche a camminare perché le ginocchia le cedevano e un velo bianco le offuscava la vista.

Rimase così a lungo ferma senza vedere e senza sapere più dove fosse e poi poco a poco sentì una leggera brezza che la scuoteva e le scompigliava i capelli. Si ritrovò sul sentiero di ritorno e si passò una mano sulla fronte che scottava. Si incammino’ allora come una automa e con un peso dentro al petto che le sembrava un macigno.

Scese infine barcollando le scale della casa di Maria e poi cadde singhiozzando fra le braccia dell’amica. Dietro alle sue spalle riuscì ad intravvedere Turi che dormiva sulla sedia a sdraio abbracciato al camion ancora lindo ed immacolato. Non aveva ancora osato sporcarlo.

A poco a poco cominciò a realizzare che quel giorno avrebbe portato a casa una creatura da crescere e da amare e si senti’ improvvisamente più leggera e finalmente piena di speranza. Sperò anche che la Madonnina Santa l’avesse compresa e forse anche perdonata perché, in fondo, quello che lei voleva fare era soltanto una buona azione e non c’era altro modo per farla. E in quel perdono lei ci sperava tanto!

 

 

 

L’onda – capitolo settimo

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Il cammino sulla propria strada

Maria trafelata e sudata appoggiò i pacchi sul tavolo e tutti e tre insieme si divertirono a scartare e a guardare, tra i gridolini di meraviglia di Turi, i vestiti che aveva comprato. Il bambino indossò subito un paio di pantaloncini, una maglietta con la stampa di una automobilina rossa sul petto ed i sandaletti di stoffa bianchi e blu. Era proprio bello con i vestiti nuovi mentre i corti riccioli scomposti gli davano un’aria biricchina e scanzonata.

Maria fece volteggiare le mutande grandi e strappate che prima indossava Turi e con un volo le fece cadere dentro al bidone dell’immondizia. Risero insieme quando il bambino corse velocemente a mettervi sopra il coperchio. Quando Carmela si mise a ballare e a cantare, il fiocco del fazzoletto azzurro annodato sulla sua testa saltellava nell’aria come le orecchie di un coniglietto di stoffa.

Poi Carmela magicamente fece sparire tutto ed in un battibaleno apparecchiò la tavola con una tovaglia a quadretti e portò una grande ciotola stracolma di spaghetti affogati in un profumato sugo rosso pieno di verdi ciuffi di basilico che poi fecero capolino dentro ai piatti.

Turi chiese di poter tenere il camion a tavola e Maria non ebbe il cuore di negarglielo per cui mangiava con la mano destra e con il braccio sinistro teneva abbracciato con fatica il suo tesoro. Il sugo gli colava un po’ dagli angoli della bocca perchè cercava di riempirsela con enormi forchettate di pasta mentre era impegnato a cercare di far passare il camion attraverso le bottiglie del vino e dell’acqua. In particolare il passaggio del grande rimorchio sembrava regalargli grande soddisfazione.

Maria aveva voluto concederglielo perchè il bambino sprizzava gioia da tutti i pori e guardava con orgoglio in particolare la ruspa che gli appariva maestosa e forte. Ogni tanto richiedeva di poter tenere il camion come se il permesso ricevuto fosse a termine e ad ogni risposta affermativa sbatteva e socchiudeva gli occhi come un gattino assonnato mentre la bocca si allargava in un ampio sorriso.

Maria era pensierosa e Carmela la guardava di sottecchi scrutando le ombre scure che incorniciavano gli occhi dell’amica. Come sempre riusciva a leggerle nel pensiero anche se agli altri questa sua capacità sembrava quasi incomprensibile perchè fra loro non correvano mai troppe parole. Non ce n’era mai bisogno.

Alla fine Carmela prese fra le sue una mano di Maria e le chiese:

“Allora cosa vuoi fare adesso dopo che hai combinato tutto questo cinematografo?”

” Devo andare a parlargli, lo sai vero?”.

Carmela sospirò e le disse di stare attenta perchè quando si compiono azioni importanti dopo quello che è stato fatto non si può cancellare e non si può più tornare indietro. Si guardarono a lungo senza parlare poi Carmela fece un cenno di assenso con la testa e così Maria si fece coraggio, si alzò e disse:

“Turi ho da fare e devo andare via per un po’ di tempo. Tu devi restare qui a giocare con Carmela e con il camion e poi ti verrò a prendere”. Il bambino alzò gli ochi e la guardò dritto negli occhi:

“E’ sicuro che poi torni? Non è che mi lasci qui?” chiese con la fronte corrucciata.

“Non ti lascio, stai tranquillo, è solo per poco tempo. Tu intanto puoi scavare e trasportare un po’ di terra per fare una bella costruzione “.

“Va bene, ti aspetto allora”. Gli occhi del bambino si riempirono di lacrime e poi lui baciò il camion pieno di colori e se lo strinse al petto mentre guardava Maria che lentamente risaliva le scale. Carmela li scrutava con il cuore gonfio di apprensione.

Maria si avviò lungo un viottolo lastricato di grandi massi levigati mentre il caldo sembrava attanagliarle le gambe e toglierle il respiro. Aveva la consapevolezza di stare andando incontro velocemente al suo destino ma le pareva anche di sentire la terra aprirsi sotto ai suoi piedi. Quel piccolo viottolo tortuoso rappresentava una strada senza ritorno.

Le cicale come sempre continuavano a frinire ritmicamente mentre l’energia del sole le regalava una grande vitalità che la spingeva inconsapevolmente a non svoltare e a proseguire il cammino sulla propria strada.

L’onda – capitolo sesto

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Ingombranti manichini in agguato

Maria si fermò un paio di volte per salutare conoscenti perchè un semplice buongiorno sarebbe stato visto come una scortesia e finalmente arrivò al negozio.

L’insegna era ormai quasi del tutto scolorita e la porta era troppo stretta ma lei entrò con passo deciso. Dorotea la negoziante, che era seduta tutta sudata e con lo sguardo vitreo su una sedia di vimini, la salutò esclamando ansante:

“Che caldo oggi,  Madonna mia!”

Maria le sorrise e cominciò a guardare la massa di vestiti che, in una cupa penombra, giacevano appesi ad un numero incalcolabile di ganci attaccati alle pareti e sembravano lugubri ed ingombranti manichini in agguato.

Per terra poi non c’era quasi più spazio perché il pavimento era riempito di giocattoli e di scarpe. Lei faticava a camminare e un paio di volte rischiò di inciampare e di rompersi l’osso del collo.

Maria allora senti’ il respiro farsi greve, fece un giro su se stessa guardando sulle pareti tutti quei colori variopinti che sembravano vorticare, si girò ancora impallidendo e… poi di nuovo ancora…. infine improvvisamente, avvitandosi lentamente, svenne e cadde con un gemito rumorosamente a terra.

In mano, stretto in una morsa d’acciaio, teneva in bella vista il foglietto in cui aveva annotato le misure di Turi.

Appena si riebbe si trovò sotto ad un ventaglio frusciante e davanti agli occhi quelli vitrei di Dorotea che la scrutavano e la interrogavano muti. Lei non profferiva parola e l’altra allora finalmente chiese: “Non è che siamo in stato interessante per caso?”

Maria si sentì di botto avvampare e per dieci minuti buoni dovette dare spiegazione dettagliata sugli acquisti che voleva fare e sulle motivazioni. Fu un interrogatorio in piena regola che affrontò come fosse un martire che aspira al Paradiso.

Ma non finì tutto lì perché poi dovette ingaggiare una lotta ancora più dura quando si trattò della scelta degli indumenti perchè lei voleva colori in tinta unita e pesci o farfalle come disegni.

La negoziante però la “babbiava” perché tutti i maschi, a suo dire, preferiscono i colori mescolati e vogliono solo disegni di palme, macchinine, palloni e pistole. Alla fine Maria riuscì a non cedere solo su due punti:  i pantaloni acquistati erano blu o marroni e di armi sui vestiti non se ne vedeva neppure l’ombra.

Aveva già scelto tutto quando Dorotea, con un tono di voce che voleva essere invitante, le disse:

Figghiuzza bedda, ma un bel giocattolino per andare al mare non glielo vogliamo comprare? Povera creatura, anche lui deve giocare sulla sabbia!”

Maria non ci aveva pensato, si sentì mortificata e disse: “Sì certo, datemi pure paletta e secchiello.”

“Madre mia che sento, che sento? Turi otto anni ha e quindi ci vuole qualcosa di più appropriato, ecco quello che ci vuole!” esclamò la negoziante strabuzzando gli occhi e, dopo avere frugato in un angolo del negozio, si voltò con sorriso trionfante e le porse un enorme camion giallo con rimorchio ribaltabile munito anche di ruspa.

Le due donne si fronteggiarono a lungo guardandosi dritto negli occhi e poi Dorotea mise le mani sui fianchi poderosi e spinse il generoso petto in fuori. Maria sgomenta strinse gli occhi, infilò una mano in tasca e infine, mentre un rigolo di sudore le colava dalla fronte, sfilò molto ma molto lentamente, il portamonete.

Pagò senza dire più una parola, prese con fatica tutti i pacchi ed ansimante si avviò verso la casa di Carmela.

 

L’onda – capitolo quinto

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La stella del mattino

Stava per albeggiare e Maria si trovava seduta sul muretto del patio esterno della casa con le spalle appoggiate ad un solido pilastro bianco che aiutava a sorreggere la loggia fatta di cannucciato e frasche.

In attesa della luce dell’aurora, ella teneva lo sguardo fisso al cielo e scrutava la stella del mattino che in quel momento verso est luccicava e brillava nel firmamento. Il cuore le si riempiva dentro e diventava sempre più pesante e cupo e lei non riusciva a trovare conforto e a decidere il da farsi.

Poi mentre la luce cominciava ad invadere il cielo e a restituire alle cose i contorni, si alzò di scatto e andò nella camera da letto. Aprì un cassetto del comò e prese le forbici e il metro da sarta che stava arrotolato in una grande scatola azzurra in mezzo ad una miriade di aghi, rocchette colorate e spilli.

Fissò intensamente Turi che giaceva ancora profondamente addormentato nel letto con i riccioli scomposti e sudati. Il lieve ansimare gli faceva increspare le labbra e scoprire i piccoli denti bianchi ed ancora perfetti.

Maria avvicinò l’orecchio alle labbra del bambino che non si mosse, poi cominciò a prendergli le misure del corpo con il metro: larghezza di bacino e torace, lunghezza di manica e pantaloncini. Stava per riporre il metro ma ritornò indietro e gli misurò la lunghezza del piede e del calzino. Lo fissò ancora lungamente dalla testa ai piedi e poi cercò di misurargli anche la circonferenza della testa. Faceva caldo e sarebbe servito anche un bel cappellino con la visiera.

Poi soddisfatta appoggiò sul comodino, accanto alle forbici, il metro e il foglio in cui aveva annotato puntigliosamente le misure e infine si avviò in cucina. Stava armeggiando con la caffettiera ed il caffè quando sentì tirare il lembo della sua camicia da notte.

Turi era scalzo e la guardava dal basso verso l’alto con un occhio ancora semi chiuso. Solo in quel momento realizzò che il bambino aveva indosso un paio di mutande da uomo troppo grandi e strappate qua e là.

Povero Turi si vestiva da solo con quello che trovava! Maria presa da profonda tenerezza lo sollevò in braccio, gli stampò sulle guance due grandi baci che schioccarono veloci nell’aria e poi cominciò a strofinare il naso contro il suo nasino. Il bimbo cominciò a ridere felice e l’abbracciò forte forte.

“ Sai Turi che faremo adesso, subito subito? Prima ancora di mangiare ti farò una bellissima doccia, perché mi pare che ce ne sia tanto bisogno!”

“No, no Maria io vado al mare a fare il bagno e sono sempre pulito!”

“Sei sempre pulito? Ora ti faccio vedere io!”

Lo acchiappò mentre cercava di divincolarsi e lo portò in giardino sotto il limone pieno di profumi e lo insaponò tutto, poi prese la pompa che usava per annaffiare il giardino e cominciò a spruzzarlo d’acqua. Turi rideva, e con le mutande tutte appiccicate al corpo e cascanti cercava di nascondersi dietro l’albero e minacciava di scappare, ma si vedeva che si divertiva tanto.

Maria gridava:” Guarda che ti vedo! Lo so che stai facendo anche la pipì non sono mica scema. Si fa nel giardino, piccolo mascalzone?”

Alla fine il giardino era completamente innaffiato e il bambino pulito come non lo era stato da anni e allora Maria lo avvolse in un grande telo e lo fece sedere sopra ad una sedia.

“Che vuoi farmi ora Maria?” chiese Turi meravigliato.

“Ora vedrai, vedrai non avere fretta!” gli rispose.

Maria andò a prendere pettine e forbici e cominciò a tagliargli i capelli mentre lui dondolava le magre gambette sotto alla sedia. I riccioli bagnati cadevano per terra e sembravano la pluma di un pulcino appena nato. Turi ogni tanto afferrava una ciocca e se la metteva in bocca per sentirne il sapore ma lei gliela faceva sputare assestandogli dei leggeri colpi di pettine sulla testa.

Gli diceva anche che era proprio bello e minacciava di tagliargli anche la barba mentre Turi rideva schermendosi perché era ancora troppo piccolo e neanche i baffi ancora aveva. Il sole ora era più alto nel cielo e stava fotografando il loro momento di immensa felicità.

Lo portò poi in cucina e gli fece mangiare una grande tazza di latte con i biscotti e  gli fece indossare una maglietta pulita che gli arrivava a metà polpaccio, senza riuscire però a nascondere i segni delle cinghiate che ancora si vedevano sul braccio e sulla gamba. Il bambino fece subito il broncio.

“Non sono mica una femminuccia io, masculu sono. Così non voglio stare, sembro con la gonna. Resto in mutande piuttosto!”

“Dai è solo per poco, i vestiti che avevi addosso sono sporchi e rotti e ti prometto che poi ti lascerò da Carmela per andare a comprarti tanti vestiti nuovi e pure le scarpe.”

Turi si mise improvvisamente a piangere perchè si sentiva umiliato, allora Maria gli prese il visetto tra le mani e gli schioccò altri due grandi baci sulle guance.

“Turi guardami in viso, ti prego. Te lo giuro sulle persone che amo di più che è solo per qualche ora e poi non succederà più. Non posso farti mettere i vestiti sporchi, lo capisci vero?”

“E va bene andiamo subito però e facciamo presto!” rispose ormai rassegnato asciugandosi le lacrime con un braccio e guardando ostinatamente di lato.

Maria prese Turi in braccio, scese lungo il sentiero ed arrivata alla strada camminò veloce fino al cancello di Carmela.

Carmela aveva  messo un disco dentro ad un mangianastri rosso e cantava con voce alta e appassionata, ma alquanto stonata, sopra a quella del cantante. Era una canzone melodica che parlava di amori e di cuori infranti e lei sembrava molto presa dall’infelicità di quella storia.

Maria la chiamò forte ma lei non sentiva, così aprì il cancellino di ferro della casa e scese le scale con Turi che continuava ancora imbronciato a guardare in basso.

Carmela li vide ed abbassò il volume della canzone:

“ Ma che bella bambina mi hai portato oggi Maria!” esclamò ridendo e con gli occhi pieni di malizia.

“Carmela, ti prego non sfotterlo, che non si diverte per niente!” intervenne Maria un po’ seccata.

Turi tenne conficcata la testa contro il seno di Maria rifiutandosi categoricamente di mettere i piedi per terra e solo dopo l’offerta di un giornalino si mise a sedere su una sedia a sdraio e cominciò faticosamente a leggere rapito.

Carmela allora, dopo averle promesso di guardare il bambino in sua assenza, ricominciò a pulire i fagiolini sparsi sul tavolo ricoperto di pentole e pentoloni che, lustrati a dovere, luccicavano e si asciugavano al sole.

Maria guardò da lontano la sua ampia veste piena di fiori colorati e pensò che, inspiegabilmente, alcune persone racchiudono la vitalità del creato nella propria anima e, sentendosi in totale simbiosi con la natura, la riflettono sulle persone che amano. Forse troppo però pensò subito dopo guardando sconsolata una lucertola che passava rilassata e con andamento lento sui piedi scalzi dell’amica. Risalì le scale e si avviò verso il negozio di vestiti per bambini.

 

L’onda – capitolo quarto

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 Gli acini volteggianti come trasparenti bolle viola

Carmela e Maria avevano di nuovo trascinato faticosamente il tavolo a casa e stavano ritornando verso la strada per prendere la tovaglia ed il resto dell’apparecchiata che avevano lasciato sul muretto.

Ad un tratto Maria si irrigidì perchè vide Turi rannicchiato per terra, il bambino teneva la schiena appoggiata contro ad un sasso sporgente ed il capo reclinato e abbandonato da un lato.

I segni di alcune tremende cinghiate gli rigavano l’esile braccio sinistro che teneva piegato e sanguinante sul grembo e una lunga ombra viola sulla coscia destra macchiava la sua pelle vellutata e scura.

“Turi, Turi ma che hai fatto? Signore mio, non ci posso credere! Ma lo so io che cosa è successo, ma stavolta giuro che a quel figlio di cane gliela faccio pagare. Come ha potuto quel bastardo senza Dio conciarti così?” e Maria si chinò e lentamente lo prese in braccio.

Turi aveva otto anni ormai ma era ancora minuto e gracile e tra le sue braccia sembrava un piccolo animaletto catturato con una tagliola.

Lo portarono a casa, gli sciacquarono e disinfettarono le ferite e lo appoggiarono sul letto mentre lui le guardava muto con i grandi occhi neri e vacui. Sembrava non gli interessasse più di niente.

“Vuoi qualche cosa? Un goccio d’acqua da bere oppure un bel dolcetto con una bella gazzosa?” gli chiese Maria.

Turi ora guardava entrambe proprio dritto negli occhi ma continuava a non proferire parola. Non si lamentava neppure, nonostante che il dolore dovesse essere forte, ma il suo sguardo profondo era pieno di tristezza e di paura.

Era ferito dentro, proprio nell’anima, e non aveva nulla da dire perchè ormai lui da tanto tempo quel calvario lo accettava come fosse un destino ineluttabile a cui non poteva e non voleva opporsi.

Tre anni addietro sua madre Nunziatina lo aveva portato in campagna perchè l’aiutasse a raccogliere l’uva. Erano i primi giorni di settembre e la giornata era bella e luminosa senza essere afosa come i giorni appena passati.

L’aria era festosa e piena di rumori, di grida e di canti perchè l’inizio della vendemmia era per i bambini un momento di incontri e di scorpacciate d’uva. Anche le vecchie del paese, che normalmente si vedevano barcollanti appoggiate ai bastoni, miracolosamente si stavano preparando a trasportare giù in paese, attraverso il viottolo tortuoso che si inerpicava sulla montagna, enormi canestri pieni di uva.

Nunziatina aveva tagliato ormai infiniti grappoli d’uva dagli acini rossi e violacei, tanto da sentire tutte le dita indolenzite, ed aveva riempito fino all’orlo il grande canestro che anche lei avrebbe dovuto portare su una spalla fino al palmento dove insieme a tante altre famiglie avrebbe pigiato l’uva nei giorni seguenti.

Turi la guardò da lontano mentre ridendo rincorreva a piedi scalzi un bambino attorno ad un grande ficodindia e la madre, quasi avesse sentito il suo sguardo, si voltò lentamente e da lontano gli sorrise e gli mandò con la mano un lungo bacio.

Poi Nunziatina, come raccontò una vicina che per caso stava guardandosi intorno nel terrazzato sovrastante mentre si stava riposando un attimo dalla faticata della vendemmia, d’un tratto buttò le forbici per terra, si girò e si avviò verso il mare che si intravvedeva all’orizzonte. L’acqua scintillava e placidamente riluceva sotto al sole caldo e ridente.

La donna si incamminò poi lentamente per una stradina scoscesa piena di sassi traballanti ed arrivò sull’orlo del dirupo. Di sotto la scogliera giallastra, piena di zolfo, raccoglieva la placida spuma del mare che solo verso sera ogni tanto cominciava ad “arraggiare”.

Lanciò allora davanti a sé gli acini del grappolo d’uva che aveva ancora  in mano e che, liberi nell’aria tersa, sembrarono bolle viola rilucenti mentre volteggiavano veloci come se il tempo avesse accellerato la loro  corsa.

Poi smise di guardare in basso e rivolse il viso al sole e restò così fino a farsi accecare gli occhi dai raggi bollenti, poi aprì le braccia e le rivolse al cielo e infine si buttò di sotto. Non un urlo, non un grido si udì, neanche il grande botto del corpo che si schiantò sulla ripida scogliera.

Al tramonto non trovandola, la cercarono tutti fra i terrazzati, intrisi di profumi che salivano dalla terra, ed i sentieri pieni di rovi colmi di more e quando finalmente la videro dall’alto qualcuno cercò di acchiappare Turi che subito si mise a scappare come impazzito.

Lo rincorsero ma lui fece in tempo ad arrivare al dirupo e guardò lì sotto il corpo rotto di sua madre che giaceva spiaccicato contro uno scardinato scoglio antico.

Turi sognò per lungo tempo le scarpe nere della madre che erano cadute una di qua una di là dal corpo e sembravano essere, per assurdo, le uniche cose ancora vive in quel baratro sottostante.

Poi qualcuno riuscì finalmente ad afferrarlo e se lo tenne stretto tra le braccia e lui non ricordò null’altro per lungo tempo. Sentiva ancora tutti i giorni l’odore aspro del sudore dei vestiti e ricordava l’ansare del suo petto ed il battito impazzito del suo cuore.

Dopo qualche settimana suo padre cominciò a picchiarlo selvaggiamente e a gridargli:

“Buono a niente, tu eri lì e non hai fatto niente. Grande “masculu” che sei! E ora come facciamo ora? Chi si occuperà di noi?”. Roteava la cinghia che si abbatteva poi senza pietà sul quel tenero coprpicino. Lui non si ribellava e non scappava, pensava di essersi meritato quella dura punizione. Non era stato capace di salvarla, perchè lui lo sapeva che lei non voleva lasciarlo. Ne era certo, ne era sicuro.

La casa andava a rotoli e Turi imparò presto a prepararsi qualcosa da mangiare e a badarsi da solo perchè il padre non voleva nemmeno che qualcuno profanasse la casa della sua Nunziatina bella.

Ogni tanto qualche “comare” imparentata invitava Turi a mangiare a casa sua e lui, quando il padre era abbastanza ubriaco da non accorgersene, muto e riconoscente ci andava.

Maria quando lo incontrava per strada lo prendeva per mano e se lo portava a casa. Gli leggeva le favole e lui contento la guardava negli occhi e poi a volte, improvvisamente, si addormentava.

Questa volta era troppo però! Non ce la faceva più a guardarlo senza sentirsi avvilita ed in colpa. L’indomani di prima mattina sarebbe andata dai Carabinieri ed avrebbe fatto “attaccare” quell’ubriacone violento!

Aveva già parlato con una sua parente di un paese vicino che si era resa disponibile a prendersi il bambino in casa per sempre. Turi, sdraiato sul letto, la guardò di nuovo e poi chiudendo gli occhi le baciò una mano.

Maria, sentì le lacrime sgocciolarle sul mento e guardò a lungo le ciglia del bambino che tremolavano e si accartocciavano vibrando sotto la luce fioca della lampada mentre lui a poco a poco si stava addormentando.

L’onda – capitolo terzo

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Languidamente fra i ruvidi cespugli di erba gialla.

L’eccitazione volteggiava nell’aria già calda, era la mattina del 29 giugno e la festa anche del Santo Patrono del paese. Le vecchiette aiutandosi fra loro portavano tavoli sul ciglio della strada principale lungo la quale avrebbe sfilato la processione solenne.

I tavoli venivano ricoperti dalle tovaglie più preziose che ognuna di loro possedeva e poi completamente addobbati con foglie fresche e lucenti, fiori di gelsomino, dolcetti e quadretti, di tutte le forge e dimensioni, raffiguranti i Santi e soprattutto la Madonnina dai tratti sempre dolci e delicati.

Dentro la casa dal grande e ormai sgarrupato pergolato, Carmela guardava assai arrabbiata Maria che era ancora in camicia da notte e sembrava non volerne sapere di fare il suo dovere per la festa di San Pietro.

“Maria, non te lo dico più: o ti alzi o ti butto all’aria tutto in questa casa. Poi se non ti muovi ancora sono capace che ti tiro pure i capelli! Oggi è festa e anche in questa casa senza più vita le tradizioni vanno onorate e vengono prima di tutto! I nostri nonni e prima ancora i loro nonni oggi facevano festa e preparavano i dolci da dare ai carusazzi. Ti vuoi vestire allora?” esclamò lanciando bellicosamente una scarpa verso Maria.

Carmela aveva occhi profondi e lucenti incorniciati da tante piccole rughe che davano al suo viso cotto dal sole ed affilato un aspetto rude e un po’ sevaggio. Maria rise e si sentì contenta di avere un’amica che era capace di metterle in zucca ancora qualcosa di sensato. Alle sue sfuriate poi ci era abituata perchè, sin da piccole, ogni tanto facevano pure qualche azzuffatina.

Andò in bagno e si preparò con cura mentre Carmela, a piedi scalzi, spazzava il terrazzino ed ogni tanto guardava il mare che si espandeva nell’orizzonte. Era piatto come l’olio e preannunciava, insieme alle cicale che ricominciavano a frinire con ritmo forsennato, un’altra giornata afosa e piena di luce.

Maria si era messa il vestito azzurro che qualche anno prima aveva cucito da sola e aveva indossato una  collana di cocci rotondi bianchi e blu che le era stata regalata per un compleanno. Non aveva alcun valore ma le ricordava gli occhi ridenti di chi gliela aveva agganciata un po’ goffamente per la prima volta al collo. Sbattè le palpebre perchè tutto ormai le pareva solo un sogno lontano.

Chiuse la porta mentre Carmela si rinfilava le scarpe, che invero le davano fastidio assai, poi le due giovani presero un tavolo di legno buono e cominciarono a trascinarlo giù per il viottolo scosceso. Tutte sudate, ogni tanto rischiavano di cadere e di santiare pur senza volere. Ma proprio in quel giorno non si poteva perchè era proprio dedicato al loro Santo!

Erano quasi le undici del mattino e stavano finendo di addobbare il loro tavolo, posto sul ciglio della strada, con tutto l’occorrente che Carmela era andata a prendere a casa sua e, per dare il tocco finale, stavano disponendo dei dolcetti fatti a forma di petali di fiori.

Improvvisamente cominciarono a sentire in lontananza il suono dei tromboni, del tamburo e dei piatti e capirono che stavano per arrivare la banda  e la processione con la statua ondeggiante del Santo in testa.

Maria sorrise perchè quella musica le procurava sempre gioia e le risvegliava i ricordi della sua infanzia. Quando era bambina, lei in quel giorno partecipava ad una processione tutta speciale assieme ai fratelli, alcune cugine e al cugino Paolino che aveva una passione sfrenata per le cerimonie sacre.

Paolino si metteva un telo scuro e lungo sopra alle spalle, che allacciava con un grande fiocco sul davanti, poi prendeva una grande croce e gridando in una lingua che doveva parere latino andava a prendere tutti i compagni di gioco. La croce la costruiva con due grandi bastoni legati fra loro con una grande corda e nessuno sapeva dove la prendesse perchè ogni anno lui giurava che a portargliela fosse stato il mare.

Tutti gli altri bambini si mettevano in fila per due dietro di lui che intonava con voce strascicata il “Chirieleinson” e facevano la loro processione, dietro a quella vera, con il loro parrino cantante.

Ormai li compativano tutti anche se, a volte, qualche vecchia acida dell’ultima fila li prendeva a sassate gridando: “Scostumati, figli di bottana, anche quest’anno qui siete?  Ve ne volete andare via invece di  insultate i Santi del Paradiso? Se fossi uno dei vostri genitori sai quante legnate vi darei? Vi farei spezzare e rotolare come minimo tutti i denti davanti!”.

Ormai erano abituati e stavano a distanza di sicurezza anche se sapevano che nessuno aveva veramente voglia di accapigliarsi proprio il giorno in cui San Pietro chiedeva ai fedeli di essere misericordiosi.

Erano felici perchè Paolino aveva gli occhi estasiati e diceva loro tutto quello che dovevano fare. Ogni tanto ordinava di genuflettersi e di invocare pietà e poi lui, nella sua estrema bontà e misericordia, gliela accordava.

Non erano convinti che dovesse essere proprio lui il dispensatore di grazia, ma si accontentavano delle spiegazioni che dava e partecipavano con impegno a tutta quella parata.

Ormai il suono della banda era vicino ed allora Maria e Carmela di riflesso, come folgorate dal cielo, si misero in ginocchio e cominciarono a pregare a voce alta.

La banda passò intontendole con il suo rumore assordante, che chissà come solo sette musicanti riuscivano a combinare, e  poi sfilò pure tutta la variopinta processione. I giovani che sorreggevano la statua erano paonazzi e sotto le giacche , che non sembravano della loro misura, scolavano sudore in special modo quando, provati dalla fatica, dovevano superare qualche piccola altura.

Le vecchie confabulavano fra loro e si facevano tutte i fatti degli altri mentre i bambini correvano all’impazzata avanti ed indietro e le madri tentavano di riempirli di pizzicotti per farli stare buoni e calmi. Ma era difficile assestarli bene senza dare troppo nell’occhio.

Passò anche Mastro Peppe che fissò Maria negli occhi ma non sembrò riconoscerla e passò anche fra gli ultimi Pietruzzo detto “lo scaltro”. La moglie, ardente devota, lo aveva trascinato quasi per forza mentre lui dondolante, ignaro persino di dove stesse andando, sognava ad occhi aperti quella bella bottiglia di languido vino dal colore rosso fuoco che  teneva ingguattata fra i ruvidi cespugli d’erba gialla e secca cresciuti dietro al muretto di cinta di casa sua.

Era posizionata all’ombra, ben inteso, perchè il vino troppo caldo da un po’ di anni, e non sapeva perchè, gli dava una picca di acido allo stomaco e qualche conato di vomito. Anche se poi sempre ogni fastidio passava e quel salutare liquido gli scendeva come acqua in corpo e gli ristorava le budella.

Ora tutti cantavano il Salve Regina ed ormai il cielo si era unito alla terra profana. Lacrime di gioia sgorgavano copiosamente dagli occhi degli anziani e poi si riversavano sulle guance rugose anche se, sia ben chiaro, ad unirsi definitivamente al cielo nessuno fra loro proprio ancora ci pensava!

L’onda – capitolo secondo

La vite del pergolato
Maria si svegliò mentre albeggiava ed il chiarore portato dal sole incominciava ad illuminare le cime degli alberi e gli angoli delle rocce e delle case bianche, mentre il vento sbatteva ancora il mare anche se la tempesta pareva essersi consumata.
Sentiva il corpo intorpidito ed umido che giaceva affondato nella sabbia e con difficoltà si impose di aprire le palpebre e di muovere le mani anche se non riusciva a capire dove fosse.
Guardò avanti a sé e vide ancora tanta sabbia e i colori variopinti delle barche mentre udiva il mare che si infrangeva con colpi secchi e ritmici contro la battigia.
Poi finalmente si rammentò e si sentì smarrita al pensiero di avere trascorso lì tutta la notte sotto la furia della tempesta come un piccolo paguro incapace, nel momento del pericolo, di rannicchiarsi dentro alla propria conchiglia.
Non riusciva ad alzarsi e richiuse gli occhi cercando di recuperare un po’ di forze e poi finalmente si mise in piedi spingendosi forte in alto con le mani ancora seppellite nella sabbia molle e non ancora riscaldata dal sole mattutino.
Incerta sulle gambe si avviò lentamente verso casa e, mentre la pelle piena di sale e di ferite le bruciava e le procurava un dolore acuto e pungente, costeggiò il muretto della strada dietro al quale spuntavano piante di cappero inselvatichite e rovi mezzi seccati pieni però di more rosse e nere.
Dopo un breve tratto, si fermò ansante e stanca e poggiando lo sguardo per terra vide ai suoi piedi una lunga fila di formiche che si toccavano con frenesia le antenne e, con disciplina ed impegno, portavano e rotolavano enormi chicchi gialli.
Fin da piccola spesso restava ore ed ore a guardare questi insetti scuri, ai quali un destino negletto aveva carpito le ali, affascinata dal loro incessante lavorio rituale e dall’occulta regia di chi, certo dell’assenza di un anelito di ribellione, ne preordinava e ne dispensava a piene mani le fatiche.
Abbandonata poi la strada, Maria si inerpicò sul viottolo che, bordato da erbe inaridite e spinose e da grossi massi che ne delimitavano i confini, portava dritto dritto alla sua casa che, sempre più scrostata, odorava ancora di basilico ma aveva la vite del pergolato  ormai avvizzita.
Dalle travi non pendevano più né le trecce d’aglio né i pomodori dal colore rosso acceso e gli scuri delle finestre serrati accentuavano il grande senso di abbandono che aleggiava nell’aria. Prese la grossa chiave scura che si trovava dietro al vaso di prezzemolo e, aperta la porta, entrò senza accendere la luce elettrica.
Si diresse direttamente in camera da letto dove, cercando a tentoni sul comodino, afferrò il grande lume antico e una scatola dai disegni gialli e neri. Accese un fiammifero. Inizialmente la fiamma illuminò il muro creando una atmosfera lugubre e sinistra e piena di ombre ma poi il lume regalò un grande e tremolante fiotto di luce gialla che le rese intima ed sempre più familiare la stanza.
Maria si diresse verso il bagno spogliandosi, si buttò sotto alla doccia bollente e poi, per ritrovare un po’ della sua quotidianità, si contemplò per un attimo nello specchio ovale, attaccato al muro da una catenella dorata. Vide solo due guance consunte ed occhi sconosciuti simili a fessure che la scrutavano  e allora sospirando ritornò in camera da letto, tirò un cassetto del comò, che si aprì scricchiolando e cigolando, e scavando alla rinfusa con le mani trovò ed indossò una camicia da notte rosa che aveva le iniziali di sua nonna ricamate su una manica.
Si avviò quindi in cucina e si preparò del tè che versò dentro ad una delle vecchie tazze sbeccate che, allineate, troneggiavano attaccate a chiodi sopra all’antico focolare accanto al forno del pane ora chiuso da un solido coperchio di metallo ormai arrugginito.
Solo allora sentì bussare forte alla porta, non voleva aprire ma continuavano a picchiare forte, sempre più forte tanto che le sembrava quasi, forse perché le doleva assai la testa, che la casa rimbombasse ed ondeggiasse percossa dalle fondamenta ed allora si decise ed aprì.
Il vecchio stava immobile con i ciuffi di capelli quasi tutti bianchi che spuntavano dalla coppola a quadri grigi. La camicia azzurra era troppo abbondante per quel corpo scheletrito, i pantaloni scuri erano tenuti su da una curria ormai logora e consunta ed il viso scarno ed aggrinzato era incorniciato da un inizio di barba. Gli occhi la fissavano assenti ed un po’ spiritati.
“ Mastro Peppe che ci fate qua voi? ” esclamò incredula e sorpresa.
“ Ma tu chi sei che non ti conosco? ” rispose lui guardandola con sospetto e corrugando la fronte.
“ Come chi sono, sono Maria, sono Maria!” e si sentì scoraggiata ed esausta perché le sembrò che la mala sorte mostrandole lo stordimento del vecchio volesse sottolinearle tutte le miserie del mondo in un solo momento.
“Ah sì Maria, sei Maria. Volevo andare di buon’ora a vedere il mare arrabbiato ed incollerito con tutti gli uomini viventi in questa terra e non so perché ma sono finito qua e vorrei solo tornarmene a casa mia da mia moglie!” disse con un soffio di voce.
Lei lo fissò a lungo e poi gli afferrò la testa con entrambe le mani e lo baciò più e più volte sulle guance affilate perché quando il destino si accanisce con le persone inermi il cuore si riempie di pietà cristiana.
“Mastro Peppe, sedetevi che vi verso un po’ di tè nella tazza.” e Maria lo spinse sopra ad una sedia traballante.
“ Lascia stare, che tanto io non servo più a niente: ho tanto lavorato per tutta la vita ed ora non so più che fare e che farmene di me stesso. I figli sono tutti in America da tanto tempo e di loro mi resta solo l’arrivo ogni tanto di qualche lettera breve, che è sempre uguale, ed i miei nipoti, sangue del mio sangue, non li conosco neanche e neppure un discorso ho mai potuto fare con loro! Io e Concetta ci facevamo compagnia e la sera nel letto ci stringevamo forte la mano mentre cercavamo di farci venire quel sonno che ormai pareva più che altro un regalo del cielo. Ora lei non c’è più e la solitudine mi torce le budella e mi pare che un topo affamato mi rosichi dentro e vorrei tanto raggiungerla al più presto. Maria, ma che campo a fare oramai? ” e si portò una mano sugli occhi.
“Mastro Peppe, non so rispondervi perché non so nemmeno più perchè campo io ma posso dirvi che c’è tanta gente che vi vuole bene e ci sono tanti bei ricordi ai quali pensare! Vi ricordate di quella quieta sera di fine estate in cui, insieme a tanti amici, veniste qui a giocare a carte e poi venne dal cielo a grande velocità quel diluvio inaspettato e correndo dentro ci ritrovammo proprio qui in questa stanza e tutti, aspettando che spiovesse, cominciarono a fare i loro discorsi strani? “
Il viso del vecchio si schiarì e quella serata gli si parò davanti come fosse stata vissuta appena la sera prima e lui, chiudendo gli occhi, cominciò lentamente a parlare.
“ Io raccontai di quella volta in cui io e mio fratello più grande eravamo andati in campagna a fare fasci di legna ma avevamo preso un po’ a giocare e non ci accorgemmo che si era fatto scuro. Ci avviammo allora di buona lena verso casa quando improvvisamente comparve da lontano un uomo grande e grosso, quasi un gigante, che allungò una gamba e questa gamba divenne lunga lunga tanto che egli riuscì subito a scavalcare un enorme fossato. La paura ci prese subito al cuore e noi ci buttammo giù per il sentiero, così velocemente che neanche una lepre ci poteva pigliare, tanto che non so neanch’io come fu che non ci rompemmo tutte le ossa. Quando ci presentammo al cospetto di mio padre già pronto a darci una severa punizione per il ritardo, il colore delle nostre guance, il sudore che ci scolava dappertutto e l’incapacità di proferire parola, ci salvarono dalle scoppole e dalle legnate che ormai ci erano destinate.” Mastro Peppe ansimò per il discorso fatto tutto d’un fiato.
“E del racconto di Agnesina ve ne ricordate?” incalzò Maria.
“ E come no! Ma ora conta tu che mi piace pure stare ad ascoltare.” e poggiò il capo su un gomito che aveva abbandonato sulla tavola.
Maria gli prese una mano legnosa e gli accarezzò il dorso dal quale spuntavano grosse vene bluastre e si rammentò di quando, minuta ed elettrizzata, stava accovacciata sul grande letto ed ascoltava in silenzio, guardando in mezzo alle sbarre di ferro con gli occhi sgranati e qualche brivido addosso, tutte quelle persone che formavano uno strano presepe incantato.
La stanza aveva i muri completamente tappezzati e ricoperti da Crocefissi e da quadri raffiguranti i Santi mentre una piccola statua di Santa Rita con il saio marrone cucito a mano, che era stata messa sotto ad una spessa campana di vetro, le metteva soggezione appoggiata sopra ad un tavolino.
“Agnesina raccontò di quando, senza motivo alcuno e senza avvisaglia, morì la sua migliore amica Santuzza e di quanto non riuscisse a capacitarsene e a farsene una ragione perché erano sempre state inseparabili fin da piccole e crescendo, per farsi compagnia, andavano persino a lavorare assieme nei campi. Aveva pensato perciò, presa da immensa nostalgia, di tagliarle una ciocca di capelli quand’ella era già dentro alla bara e di conservarla chiusa in un fazzoletto in mezzo ai suoi vestiti pensando di tenersela così per sempre vicina. Ma un giorno salendo su per la montagna, improvvisamente Santuzza le si parò davanti agli occhi vestita di chiaro e, dondolandosi avanti e indietro sopra ad un ramo di ulivo, con voce supplicante e strascicata e gli occhi intrisi di lacrime, le chiese di restituirle i suoi capelli. Agnesina diventò bianca come il latte e restò ferma dov’era per lungo tempo perché i suoi piedi non ne volevano più sapere di muoversi mentre sentiva che dalla bocca le usciva pure un po’ di bava e forse forse si era fatta pure una pisciatina addosso.Quando finalmente riuscì a camminare, tornò a casa e si mise a letto per tre giorni con le lenzuola tirate sulla testa e solo dopo, accompagnata da alcuni parenti d’animo forte, riuscì a recarsi al camposanto. Mise la ciocca rubata sulla tomba dell’amica che da allora per certo trovò pace, là dove si trovava, perché mai più tornò a scantarla e ad impietrirla con il suo dolore.” terminò Maria sentendosi ancora qualche tremito addosso.
Mastro Peppe invece sorrise:” Ora me ne vado che mi sento troppo stanco e poi lasciamo alcuni di questi racconti da parte per un’altra volta così avremo ancora tante cose da ricordare!”.
Maria lo aiutò ad uscire. ” Aspettate, vi accompagno a casa.” lo pregò con tono accorato.
“ No, ora mi sento bene e me ne voglio tornare da solo.” rispose con orgoglio.
“Addio Mastro Peppe e state attento a non cadere”. Lo seguì con lo sguardo fin quando non vide dall’alto la coppola girare sulla strada e poi scomparire.
Ora il caldo faceva ormai assordare la vallata, le cicale parevano assai infuriate ed il mare verde in lontananza pareva brillare e tremolare sotto il sole che ormai alto nel cielo con malcelata indolenza lo stava a guardare.