Harald I di Danimarca detto Blåtand o Bluetooth

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Harald I detto Blåtand (911- 987) fu il primo re a unificare il regno di Danimarca. Il soprannome Blåtand, che significa dente azzurro o dente blu, nasce dall’unione delle due parole danesi blå, cioè Blu, e tand, dente. La spiegazione più plausibile è che il sovrano, peraltro insolitamente scuro di pelle e capelli, in battaglia fosse solito colorarsi i denti d’azzurro così come i suoi soldati. A supporto di tale spiegazione, scavi archeologici in Inghilterra e Svezia hanno portato alla luce teschi di mercenari vichinghi i cui denti erano rigati, probabilmente facendo loro cambiare colore in modo permanente.

Harald, educato dalla madre che era vicina alla religione cristiana, quando divenne re nel 935 continuò la ricostruzione delle chiese cristiane che precedentemente il padre Gorm il Vecchio aveva saccheggiato e distrutto soprattutto in Germania.

Re Harald capì la necessità di unificare il suo regno dal punto di vista religioso quale base per costruire l’unità politica della Danimarca e far fronte alle continue minacce provenienti dai vari regni germanici. La conversione alla fede cristiana durò 25 anni ed egli si battezzò verso il 970.

Re Harald fece potenziare i Danawirk, una catena di fortezze che controllavano i confini con le terre germaniche e poi conquistò la Norvegia. Fu ucciso nel 986 circa in seguito a una congiura architettata per anni dal suo stesso figlio Sven  detto Barbaforcuta. La sua politica di espansione fu portata avanti dal figlio e dal nipote Canuto il Grande che divenne unico re a capo del Grande impero del Mar del Nord che comprendeva Inghilterra, Danimarca, Norvegia e parte della Svezia.

Re Harald eresse una grande Pietra runica in memoria dei suoi genitori che è una delle più importanti reliquie cristiane dello Jutland del nord. Tale megalite contiene le seguenti parole, scritte in caratteri runici:

« Harald il re fece costruire questi monumenti a Gorm suo padre e Thyre sua madre, Harald che vinse tutta la Danimarca e la Norvegia e convertì i Danesi al Cristianesimo. »

Per la sua opera di diffusione del cristianesimo in Danimarca Aroldo venne considerato Santo dalla Chiesa cattolica ed è festeggiato il 1º novembre.

Dal nome Harald Blåtand o Bluetooth in inglese deriva il nome dello standard Bluetooth utilizzata per mettere in comunicazione telefoni cellulari, computer e tablet così come il re aveva unito i popoli della penisola scandinava con la religione.

 

La leggendaria prigione di Alcatraz

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Alcatraz, piccola isola situata a due chilometri da San Francisco, è stata una prigione degli Stati Uniti d’America famosa per le celle piccolissime, anche se singole, i lunghi isolamenti dei detenuti e le scarse possibilità di visite da parte dei parenti. La possibilità di fuga inoltre era inesistente a causa della stretta sorveglianza, delle forti correnti marine e degli squali che, pur non attaccando l’uomo, infestavano le acque.

Il  nome Alcatraz è di origine spagnola e deriva da una specie di uccello marino, simile al pellicano, che popolava l’isola. Diventò un fortino durante la Guerra civile americana e a metà del XIX secolo era importante per il faro, attivo dal 1853 al 1909, che orientava le navi che giungevano  in California negli anni della corsa all’oro.

Alcatraz diventò prigione nel 1933 con detenuti militari e poi, dall’anno dopo, con prigionieri in regime di massima sicurezza. La vita del carcere fu breve perchè  durò solo 29 anni per gli alti costi dovuti al trasporto sull’isola di alimenti, indumenti e acqua potabile. Il 21 marzo del 1963 la prigione fu chiusa.

Il famoso gangster Al Capone passò ad Alcatraz più di quattro anni, suonando il banjo di domenica nella banda della prigione, e fu anche punito per aver corrotto le guardie per assicurarsi migliori condizioni. Furono 14 i tentativi di evasione dalla prigione da parte di 36 prigionieri ma quasi tutti si conclusero con la morte degli aspiranti fuggiaschi, che quando riuscivano a lasciare l’isola finivano con l’annegare, essere uccisi mentre nuotavano o catturati all’arrivo a San Francisco.

Nel 1937 Theodore Cole e Ralph Roe riuscirono a infilarsi tra le sbarre di una finestra, e nascosti dalla nebbia raggiunsero la spiaggia. Nuotarono fino a San Francisco e poi di loro non si seppe più nulla. Si ipotizzò che fossero morti per annegamento ma nel 1941 un reporter del San Francisco Chronicle disse di aver incontrato Roe in Sud America e che quest’ultimo gli aveva raccontato come Cole fosse stato rapinato e ucciso da due sconosciuti. E’ molto nota anche l’evasione di Frank Morris e dei fratelli John e Clarence Anglin nel 1962 che fu raccontata anche nel film Fuga da Alcatraz di Don Siegel.

Sei anni dopo la chiusura, un gruppo di 68 nativi americani occupò il penitenziario per protesta e si offrì di acquistare l’isola allo stesso prezzo al quale, nel 1626, gli indiani Lenape avevano venduto l’isola di Manhattan agli europei: perline colorate e stoffa rossa. Arrivarono altri rappresentanti di 50 tribù, uniti sotto il nome di ‘Indians of all tribes’, per fondare ad Alcatraz un centro studi sui nativi americani, ma i manifestanti furono sgomberati un anno e mezzo dopo.

Dal 1981 la leggendaria ”fuga da Alcatraz” è diventata una gara di triathlon, con centinaia di partecipanti che ogni anno si sfidano a bracciate per coprire la distanza tra l’isola e San Francisco.

 

Mastro Titta “er boja de Roma”

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Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta nacque a Senigallia nel 1779 e morì a Roma nel 1869, noto come “er boja de Roma”, fu dai diciassette anni in poi l’ esecutore di 516 sentenze di morte dello Stato Pontificio ed esercitò questa professione per ben 68 anni. Le sue prestazioni sono annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864 e, quando venne sostituito da Vincenzo Balducci, il Papa Pio IX gli assegnò anche il vitalizio mensile di 30 scudi. A ottantacinque anni si ritirò a vita privata convinto, da cattolico osservante come era, di aver fatto il suo dovere al servizio della chiesa e del Papa.

A Valentano  presso l’archivio storico, è reperibile la testimonianza della sua prima esecuzione a Poggio delle Forche, scritta in prima persona: «Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità».

Il nomignolo affibbiatogli di mastro Titta fu poi esteso anche ai boia che gli succedettero e pertanto in alcune terre dello Stato Pontificio, e a Roma in particolar modo, ora il termine “mastro Titta” è sinonimo di “boia”.

Il suo aspetto non si addiceva però alla sua professione perchè appariva come un inoffensivo borghese che spesso veniva visto sorridente mentre passeggiava di buon umore. Basso di statura aveva però cura della persona e dell’abbigliamento e nei lunghi periodi di inattività conduceva una vita modesta e per mantenersi vendeva  ombrelli. Al suo passaggio la gente si faceva il segno della croce, mentre altri si levavano il cappello, quasi a volerselo ingraziare

Viveva a Roma nel rione Borgo al numero civico 2 di Vicolo del Campanile. Era naturalmente malvisto dai suoi concittadini tanto che gli era vietato, per tutelarlo, di recarsi nel centro della città dall’altro lato del Tevere. Da ciò viene il proverbio “Boia nun passa Ponte” che significa “ciascuno se ne stia nel proprio ambiente”.

Ma siccome a Roma le esecuzioni capitali pubbliche decretate dal papa avvenivano sull’altra sponda del Tevere – in Piazza del Popolo o a Campo dei Fiori o nella piazza del Velabro – per compiere il suo dovere Bugatti doveva attraversare il Ponte Sant’Angelo. Questo fatto diede origine all’altro modo di dire romano: “Mastro Titta passa ponte“, a significare che quel giorno era in programma l’esecuzione di una sentenza capitale.

Nel 1817 George Gordon Byron si trovava in piazza del Popolo mentre tre condannati venivano decapitati e il poeta descrisse questa esperienza in una lettera indirizzata al suo editore. Anche lo scrittore inglese Charles Dickens nel 1845  a Roma assistette in via de’ Cerchi ad un’esecuzione effettuata dal Bugatti e commentò l’episodio nel suo libro Lettere dall’Italia.

Durante le esecuzioni Mastro Titta indossava un mantello scarlatto che ora è conservato al Museo Criminologico di Roma.

 

La simbologia dei trulli di Alberobello

 

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Per alcuni studiosi i pinnacoli dei trulli di Alberobello sono una sorta di marchio dei diversi maestri trullari per contraddistinguere il proprio lavoro oppure un semplice elemento decorativo prescelto dai proprietari della casa.

Per altri, la loro origine è da ricondurre a una primitiva simbologia magica. Non a caso, le forme che li caratterizzano, (il disco, la sfera, il cono, la piramide a base quadrata o triangolare), nell’antichità erano connesse al culto solare, praticato dai popoli agricoli primitivi e documentato in Puglia fino al primo secolo A.C. Nelle costruzioni più recenti la migliorata capacità tecnica hanno permesso che le forme tradizionali fossero sostituite da sculture antropomorfe o decorative.

Anche sul frontale di ogni cupola vi sono dipinti in calce dei simboli di valore propiziatorio o magico di origine pagana o cristiana. La maggior parte di tali emblemi sono di natura religiosa anche se spesso identificabili per intuizione più che per la chiarezza del disegno. Secondo una classificazione del 1940 è possibile suddividerli in: primitivi, magici, pagani, cristiani, ornamentali e grotteschi.

Sui trulli pugliesi, infatti, sono stati individuati circa duecento segni: anche se quasi tutti i simboli hanno acquisito un significato eminentemente cristiano, l’antica credenza popolare considerava questi segni dotati di particolari virtù magiche e capaci di allontanare le influenze maligne. Non essendo stata tramandata alcuna informazione, se non orale, tutto ciò che si è detto sull’interpretazione di tali emblemi è frutto d’intuizioni, deduzioni o parallelismi degli studiosi.

Una croce, un ostensorio, un calice eucaristico, la colomba richiamano senza dubbio il culto cristiano-cattolico, mentre una croce svastica e un candelabro a sette bracci rimandano alla più antica religione ebraica. Alcuni simboli hanno una doppia valenza, apotropaica e religiosa, come il sole e l’occhio umano, l’aquila e il serpente. Le forbici e il ferro di cavallo sono legati alla superstizione contadina impregnata di ritualità pagane nonostante il diffondersi del cristianesimo che lentamente s’innestò su molti di quei rituali. Alcuni simboli cristiani sono analoghi a quelli incisi sui portali d’accesso delle chiese rupestri medievali, nelle gravine e nelle lame della Puglia centrale. Altri simboli scaramantici, come la lettera Zeta, richiamano la parola greca zoé, che vuol dire “vita”; la stessa lettera si ritrova in alcuni mosaici paleocristiani.

Tutti gli altri, religiosi e no, sono simboli di tutte le epoche, giunti fino ai giorni nostri, nelle chiese e nelle case, tramandate da chi voleva affidare il proprio destino al divino o a forze naturali. Pertanto che essi siano di origine medievale o più recente, se qui portati dai monaci greco-bizantini o se tramandati dalla cultura latina di certo si tratta di segni con significati universali.

Nel Novecento in Valle d’Itria si dipingevano in calce sui coni le  iniziali del nome del proprietario, una sorta di numero civico.  Mentre qualche cono a pois, a fasce, a scacchiera è solo  una espressione bizzarra. A servizio della propaganda politica  antiche foto ritraggono la scitta “W il Duce” sul cono di un  trullo di Alberobello poi  cancellata per attuare una  damnatio memoriae.

Il mite Pangolino gigante

 

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Google nel 2017 per celebrare San Valentino ha dedicato un doodle al pangolino. Aprendo la pagina si vedeva un’animazione interattiva che permetteva a uno dei due animaletti protagonisti di preparare una torta al cioccolato per l’altro e di celebrare così San Valentino.

Il pangolino gigante vive in Africa centrale e centro-occidentale e in Asia. E’ un mammifero che misura 65-80 cm e pesa 25-30 kg. ed è a rischio di estinzione. Il suo corpo è ricoperto di scaglie ossee, dal colore che varia dal marrone-giallastro al bruno-olivastro, che vengono periodicamente sostituite e che sono disposte come le tegole di un tetto.

Le scaglie sono presenti ovunque ad eccezione del ventre e della parte anteriore delle zampe e servono all’animale per arrotolarsi a palla su se stesso per proteggere lo stomaco dai predatori. La sua testa è piccola e conica con le aperture per l’orecchio piccole o assenti.

I denti sono ridotti perchè per catturare gli insetti si serve della lingua che è ricoperta da una sostanza appiccicosa che può fuoriuscire fino a 40 cm. Quando non serve rimane arrotolata in una guaina nascosta nella cavità toracica. Gli arti sono corti e terminano con cinque grossi artigli che gli servono per  nutrirsi e per arrampicarsi.

Il pangolino, che si sposta sugli alberi anche grazie alla coda prensile, si ciba di formiche e termiti che digerisce bene perchè il suo stomaco è molto robusto e inoltre, per proteggersi dai loro morsi, ha le palpebre ispessite.

Comunica rilasciando sostanze prodotte dalle ghiandole anali e distribuendo feci lungo il suo percorso e talvolta emette soffi e sbuffi. Le femmine partoriscono un piccolo che pesa 200-500 gr. che si aggrappa subito alla coda della madre.

 

 

Il canto di Farinelli e la musicoterapia

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Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, noto come Farinelli, è stato il più famoso cantante lirico castrato. Nacque nel 1705 ad Andria in Puglia, allora appartenente al Regno di Napoli, in una famiglia agiata che fece studiare il figlio maggiore Riccardo da compositore e Carlo da cantante. Dopo la morte del padre, nel 1717 il fratello Riccardo fece castrare il dodicenne Carlo al fine di fargli conservare la voce prima che lo sviluppo sessuale potesse modificarla.

Carlo per circa sei anni studiò solfeggio, l’intonazione perfetta e la rapidità nel cambiare il ritmo della frase musicale. Con lo studio la sua voce diventò di mezzosopranista molto estesa, sia verso il basso fino a toni da contralto profondo perchè toccava anche il do2,  sia verso l’alto dove arrivava a toccare il donota da sopranista effettivo.

A quei tempi era d’uso scegliere un nome d’arte e scelse Farinelli o Farinello forse perchè un membro della nota famiglia napoletana di avvocati Farina lo protesse e probabilmente lo finanziò durante il periodo in cui studiava.

Debuttò a Napoli, nel 1720 nella serenata  “Angelica e Medoro”, il libretto era di Pietro Metastasio con cui strinse un’amicizia che durò tutta la vita. Fece stagioni trionfali a Roma e poi cantò a Vienna, Venezia, Milano e Bologna.

Il pubblico del tempo adorava il virtuosismo, che consisteva nell’esecuzione di variazioni arbitrarie ai brani cantati che esprimevano grande difficoltà tecnica, e vi erano frequenti “duelli” tra musicisti. A Roma Broschi vinse nel 1722  una sfida addirittura contro un trombettista tedesco sulla tenuta lunga di una nota altissima. A Bologna nel 1727 fece una competizione con Antonio Maria Bernacchi,  uno dei più importanti cantanti castrati. Nel 1730 fu ammesso all’Accademia Fisarmonica di Bologna.

Nel 1734 Farinelli si trasferì a Londra e cantò presso l’Opera della nobiltà ed ebbe una fama immensa tanto che nei tre anni in cui soggiornò in Inghilterra guadagnò oltre 5.000 sterline.

Poi nel 1737 accettò l’invito di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V di Spagna ma prima passò per la Francia e cantò anche per Luigi XV. Il re spagnolo soffriva di nevrastenia e malinconia ed aveva abbandonato la vita pubblica e gli affari di Stato ed inoltre  manifestava segni di follia. Il cantante riuscì a far uscire il sofferente Filippo, lo fece lavare e radere attuando una delle prime forme di musicoterapia. Il re gli corrispondeva uno stipendio di 2000 ducati con l’unica richiesta di non cantare più in pubblico.

Divenuto criado familiar dei re di Spagna, il cantante fu nominato da Ferdinando VI di Spagna anche cavaliere di Calatrava. Farinelli riuscì così ad esercitare  una grande influenza sulla corte e sulla politica. Gli si devono i primi lavori di bonifica delle rive del Tago, diresse l’opera di Madrid e fece instaurare un teatro d’opera italiano. Carlo III però nel 1759, probabilmente a causa dell’eccessiva influenza del cantante, lo allontanò.

Farinelli si ritirò allora a Bologna dove morì nel 1782 poco dopo il suo amico Metastasio, lasciando una meravigliosa collezione d’arte e di strumenti musicali che fu però dispersa dai suoi eredi.

Il suo canto influenzò lo stile delle opere composte in quel periodo. Alle sue qualità artistiche, Farinelli aggiungeva quelle umane perché era affabile,  modesto e senza bizze malgrado la fama e il grande talento. Per scoprire i segreti della  sua fenomenale estensione vocale e la tenuta dei fiati, il suo corpo è stato esumato nel 2006 per poter effettuare esami sul DNA delle sue ossa.

Il diamante Hope, la pietra blu maledetta

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La bellezza del diamante Hope detto anche Blu di Francia è paragonabile solo alla sua fama di pietra maledetta perchè molti dei possessori sono morti uccisi, suicidi o per malattia oppure sono finiti rovinati economicamente.

Il diamante si formò in India circa 1,1 miliardi di anni fa nelle profondità della terra e la sua prima vittima fu un sacerdote indù che nel 1515 lo rubò dal suo tempio, finendo catturato e torturato a morte. Un’altra leggenda racconta che il mercante Jean-Baptiste Tavernier lo disincastonò dall’occhio della statua Rama-Sitra, la quale maledisse la pietra e infatti il figlio di Tavernier perse al gioco tutta la fortuna di famiglia.

Luigi XIV ordinò al gioielliere di presentargli la gemma per poterla comperare. L’enorme diamante, che in origine era tagliato per il suo volume e non per la sua brillantezza, è stato successivamente diviso durante l’anno 1673 in 44 grandi pietre brillanti e 1222 diamanti più piccoli.

Il Re Sole comprò la pietra migliore di 67 carati 1/8th che, attaccata ad un nastro, venne soprannominata il “diamante blu della corona” anche se infine la gemma ricevette a livello internazionale il soprannome di “francese Blue” (o “Blue de France”), per le sue dimensioni particolarmente brillanti.

Luigi XIV e Luigi XV attraversarono in vita attroci sofferenze, l’uno per una cancrena al piede e l’altro per il vaiolo. Il diamante venne donato poi alla Principessa Maria Luisa che morì durante le stragi del 1792 dopo essere stata  violentata e picchiata a morte.

Luigi XVI e sua moglie Maria Antonietta furono i successivi proprietari ed entrambi furono ghigliottinati durante la la Rivoluzione Francese nel 1793. Poi Caterina la Grande di Russia entrò poi in possesso della pietra appena prima di morire per apoplessia nel 1796.

Nel 1830 il lord inglese Henry Thomas Hope diede il nome attuale alla pietra e la fece tagliare all’attuale dimensione di 45,5 carati. Pagò il diamante Hope 30.000 pound ma finì per separarsi dalla moglie. Vendette la pietra al principe russo Kanitowskij che fu trucidato dai rivoluzionari russi non prima di aver ucciso la ballerina alla quale aveva donato il diamante.

Il mercante greco Simon Matharides aquistò la pietra ma poi finì in un burrone prima di averla ricevuta materialmente. Il Sultano Abdul Hamid la acquistò per $ 400,000 e un anno dopo venne deposto dalla rivoluzione turca.

Nel 1910 Pierre Cartier acquistò la pietra e la vendette a Edward Beale McLean, il proprietario del Washington Post. Presto morirono  la madre ed il figlio del proprietario, mentre la figlia e due cameriere si suicidarono e in seguitoo i coniugi si separarono. L’uomo divenne un alcolista e finì in miseria mentre la moglie morì di polmonite a 60 anni.

L’ultimo proprietario Harry Winston donò la pietra al museo Smithsonian di Washington nel 1958, dove è a tutt’oggi custodita. La maledizione non risparmiò neanche il postino che lo consegnò: subì due incidenti e  perse la moglie e la casa in un incendio.

Il monaco Ario, l’arianesimo e l’unitarianismo

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Il monaco Ario (256, Libia – 336, Costatinopoli) insegnava che Dio era unico, eterno e indivisibile e quindi il Figlio di Dio non poteva essere considerato Dio allo stesso modo del Padre proprio perché la natura divina è unica. La natura divina è di per sé eterna e indivisibile e quindi il Figlio è in posizione subordinata rispetto al Padre.

Nel 300 fu scomunicato da Pietro I Patriarca di Alessandria che condannò le sue idee come eretiche ma nel 311 il nuovo patriarca Achilla lo riabilitò, consentendogli di predicare nuovamente. Nel 318 il nuovo Patriarca Alessandro dichiarò nuovamente l’eresia della dottrina ariana e scomunicò Ario che fuggì in Palestina.

In Siria e Palestina però la sua dottrina si diffuse e molti filosofi cristiani, tra i quali il vescovo Eusebio, si schierarono a favore delle tesi ariane. Eusebio, diventato Vescovo di Nicomedia, fu poi scomunicato per la propria vicinanza alle idee di Ario da un sinodo tenutosi ad Antiochia. Gli ottimi rapporti però fra Eusebio e l’imperatore Costantino proteggevano Ario da eventuali pericoli.

Costantino si era interessato alla vicenda e aveva deciso che il concilio, che era stato convocato dai vescovi egiziani, sarebbe stato “ecumenico”, cioè vi avrebbero partecipato tutte le comunità cristiane e si sarebbe tenuto a Nicea sia perchè era più facilmente raggiungibile dai vescovi dell’Occidente, sia perché molto vicina a Nicomedia, la città dove l’imperatore aveva la propria residenza.

Nel concilio di Nicea del 325 Ario ed Eusebio non riuscirono a convincere il padri conciliari: se infatti il Figlio di Dio non era uguale al Padre, allora non era neanche divino o per lo meno non lo era quanto il Padre. E questo non era accettabile. La tesi poi secondo la quale “ci fu un tempo in cui il Figlio non c’era” non era accettata e Ario ed Eusebio di Nicomedia furono condannati all’esilio. Ario si trasferì in Illiria.

L’idea ariana rimase però molto presente all’interno della chiesa orientale tanto che nel 328 i vescovi esiliati vennero richiamati nelle loro sedi. Eusebio di Nicomedia riuscì a far ritornare Ario che fu anche accolto a corte e riabilitato da Costantino che mandò invece in esilio il vescovo Atanasio di Alessandria che era stato fra i grandi oppositori dell’arianesimo. Nel 336 Ario morì a Costantinopoli.

In alcune popolazioni barbare, come i Goti,  l’arianesimo era ancora seguito e continuò ad esserlo fino all’VIII secolo, dopo il quale è praticamente  scomparso. Il teologo anglicano inglese Samuel Clarke riprese nuovamente le teorie ariane nel suo libro “The Scriptural Doctrine of the Trinity” nel 1712, che fu però subito criticato ed osteggiato anche dalla stessa chiesa anglicana.

La dottrina moderna che più si avvicina all’arianesimo è l’unitarianismo, che, come molte chiese protestanti è diviso in varie correnti più o meno autonome. E’ diffuso soprattutto negli Stati Uniti d’America.

 

La magia della galaverna

 

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Il fenomeno della galaverna fa ammirare alberi totalmente ghiacciati che sembrano di cristallo, immobili anche alle raffiche di vento più intense e prati bianchi non di neve ma sempre di ghiaccio puro. Un bosco può diventare così una “foresta incantata” e la galaverna si può attaccare anche sulla barba o sui capelli delle persone che attraversano il luogo interessato al fenomeno.

La galaverna di nebbia non è però mai dannosa per le piante. Essa si forma quando la temperatura esterna risulta al di sotto dello zero e la zona è ricoperta da nebbia. Le minuscole goccioline liquide che formano la nebbia  si congelano quando vengono a contatto con i rami degli alberi che presentano anch’essi una temperatura negativa e formano una galaverna “soffice” che sembra neve.

In questo caso il peso che si viene a creare sugli alberi non è mai eccessivo e gli schianti a terra sono rari. La presenza di ghiaccio sui rami può anche liberare la pianta da eventuali parassiti che la infastidiscono, come per esempio gli afidi.