Miguel de Cervantes y Saavedra, autore del primo romanzo “moderno” .

Miguel de Cervantes Saavedra nacque il 29 settembre del 1547 ad Alcalá de Henares e quindi visse nel cosiddetto Secolo d’oro, dopo la scoperta dell’America, un periodo molto florido per la Spagna pioniera delle nuove rotte commerciali verso le Americhe e sul Pacifico. Ma Cervantes si trovò spesso in difficoltà economiche poiché non era un grande amministratore dei propri beni. 

Era quarto di sette figli, riservato e balbuziente, e da piccolo si muoveva con la famiglia da Madrid a Valladolid e a Siviglia a causa delle difficoltà economiche del padre. A soli 22 anni fu accusato di aver ferito durante un duello il muratore Antonio de Sigura nel recinto di Palazzo Reale a Madrid e così, scappato in Italia, fu condannato in contumacia al taglio della mano destra.

Visse per qualche tempo a Roma, al servizio del cardinale Giulio Acquaviva, ed è probabilmente qui che iniziò la sua formazione letteraria da autodidatta anche se Cervantes scelse di seguire la via delle armi.

Nel 1571 a 24 anni salì come archibugiere sulla galea Marquesa, che faceva parte della flotta della Lega Santa, istituita dal papa contro gli Ottomani, a cui partecipava anche il re Filippo II di Spagna. La flotta cristiana nei pressi di Lepanto in Grecia, dopo una cruenta battaglia, riuscì ad avere la meglio sui Turchi di Mehmet Alì Pascià.

La Lega vinse, arrestando l’espansione dei musulmani in Europa, ma Cervantes rimase ferito in diverse parti del corpo e ci rimise l’uso della mano sinistra. Così, nel 1575, Miguel salì sulla galea Sol deciso a tornare in patria ma la flotta, partita da Napoli e formata da tre imbarcazioni, davanti alle coste francesi fu colpita da due terribili tempeste.

La galea rimase isolata in mezzo al mare e fu circondata e assalita da pirati barbareschi guidati dal rinnegato albanese Arnaute Mamì che portò i passeggeri ad Algeri in catene. Egli fu così tenuto in cattività per cinque anni fino al pagamento di un riscatto nel 1580, ad opera delle missioni dei trinitari.

Cervantes pubblicò nel 1585 La Galatea, il suo primo romanzo, che gli fruttò 120 ducati e poi compose numerosi testi teatrali alcuni dei quali furono rappresentati all’epoca. Nel 1584 si sposò con la ventenne Catalina de Palacios, figlia di piccoli proprietari terrieri, e visse a Esquivias, un paesino al confine tra la Castiglia e la Mancia, dove passava il tempo scrivendo e amministrando le terre di famiglia.

Nel 1587 finalmente ebbe un incarico in Andalusia, prima come procacciatore di viveri per la flotta spagnola e poi come riscossore delle tasse. Cervantes doveva requisire grano e altri beni per conto del re e multare o perfino arrestare chi si rifiutava di consegnarglieli ma nel 1597, accusato di aver sottratto denaro dalle casse pubbliche, fu incarcerato per sette mesi a Siviglia.

Dopo questa brutta avventura Miguel si trasferì a Valladolid con la moglie, le sorelle, la nipote e la figlia illegittima Isabel e altri membri della famiglia, in tutto 20 persone in una casa con 13 piccole stanze comunicanti tra loro, creando scandalo fra i vicini.

Una mattina nel 1605, di fronte a casa sua fu ritrovato accoltellato il cavaliere Gaspar de Ezpelet ed egli, subito sospettato, finì in carcere dove rimase però solo un giorno e mezzo e il caso fu chiuso senza colpevoli. Ma durante il processo in molti deposero contro le donne di famiglia, pronti a giurare che le signore ricevevano uomini di giorno e di notte.

Intanto venne alla luce il suo libro El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, che si divide due parti, una pubblicata nel 1605 e una nel 1615.  Il protagonista del romanzo era Don Chisciotte, nato con il nome di Alonso Quijano, che aveva letto così tanti romanzi cavallereschi da uscire di senno e decidere, a 50 anni, di partire per un’improbabile avventura con un ronzino, un’obsoleta armatura e un fedele scudiero per cambiare il mondo.

Aspirava a restaurare la giustizia emulando gli eroi dei romanzi cavallereschi e quindi di una realtà tramontata ma in cui egli credeva fermamente. Così questo strampalato cavaliere si trovò anche a combattere contro i mulini a vento, scambiandoli per temibili giganti dalle lunghe braccia.

Il romanzo scritto con un linguaggio semplice e colloquiale, è annoverato non solo come la più influente opera del Secolo d’Oro e dell’intero canone letterario spagnolo, ma un capolavoro della letteratura mondiale ed è considerato anche il primo romanzo moderno.

Don Chisciotte, eroe folle e visionario ma dai buoni principi tipici della cavalleria errante, è una metafora dell’idealismo costretto a scontrarsi con una realtà priva di eroismo che non riesce a sottrarlo a situazioni grottesche.

Il romanzo è anche la parabola di come la pazzia, rappresentata da Don Chisciotte, e l’ignoranza, rappresentata da Sancho Panza, conducano l’uomo a perdersi nei meandri della realtà, dove ogni cosa può essere soggetta a diversi punti di vista.

Cervantes testimonia con il suo romanzo la crisi di fiducia del suo tempo e l’inadeguatezza della nobiltà dell’epoca nel fronteggiare un mondo ormai senza ideali. Nel romanzo prevale la disillusione e la scissione tra sogno e vita reale lo rende ancora molto attuale.

Miguel de Cervantes morì il 22 aprile 1616, poco prima del suo contemporaneo William Shakespeare e fu seppellito nel Convento dei Trinitari Scalzi di Madrid.

Il colera, infezione batterica a trasmissione orale

Il colera è un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae che si trasmette per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione.

Nel diciannovesimo secolo il colera si è diffuso più volte dal delta del Gange verso il resto del mondo, dando origine a sei pandemie che hanno ucciso milioni di persone in tutto il mondo.

La settima pandemia è iniziata nel 1961 in Asia meridionale, raggiungendo poi l’Africa nel 1971. Nel 1973 , a causa di una partita di cozze tunisine, il colera sbarcò in Puglia, a Napoli, Cagliari, Palermo e in altre città europee come Barcellona.

Nelle Regioni italiane “contaminate” fu interdetto l’accesso alle spiagge, furono chiuse le Università, i cinema e i teatri, l’inizio dell’anno scolastico fu rinviato a novembre inoltrato, furono distrutte le “colti­vazioni” di mitili e vietati il com­mercio degli stessi, ma anche di altri molluschi, di pesci e fichi…. . Si verificarono accaparramenti di limoni, considerati un blando di­sinfettante, e di disinfettanti veri e propri che furono venduti a prezzi stellari alla borsa nera. Naturalmente crollò il turismo.

Ci furono tafferugli e vere e pro­prie sommosse, specie a Napoli perché le dosi di vaccino non erano suffi­cienti e scarseggiava il personale sanitario e le siringhe. Venne in soccorso la VI flotta americana di stanza a Napo­li, il cui personale sanitario usò le rapide “pistole” sperimentate in Vietnam per le vaccinazioni di massa. Si stima che a Napoli ed in Campania la vaccinazione abbia raggiunto fra il 50 e l’80 per cento della popolazione.

Poi nel 1991 l’infezione raggiunse l’America e oggi la malattia è considerata endemica in molti Paesi e il batterio che la provoca non è ancora stato eliminato dall’ambiente.

La principale riserva dei vibrioni del colera è rappresentata dall’uomo e dalle acque, soprattutto quelle salmastre presenti negli estuari, spesso ricchi di alghe e plancton.

È una malattia a trasmissione oro-fecale cioè può essere contratta in seguito all’ingestione di acqua o alimenti contaminati o da materiale fecale di individui infetti sia malati sia portatori sani o convalescenti. I cibi che presentano più rischi sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare.

Le scarse condizioni igienico-sanitarie di alcuni Paesi e la cattiva gestione degli impianti fognari e dell’acqua potabile sono le principali cause di epidemie di colera. Il batterio può vivere anche in ambienti naturali, come i fiumi salmastri e le zone costiere, e per questo il rischio di contrarre l’infezione per l’ingestione di molluschi è elevato.

Senza la trasmissione attraverso cibo o acqua, il contagio diretto da persona a persona con il semplice contatto è molto raro in condizioni igienico-sanitarie normali.

Il periodo d’incubazione della malattia varia solitamente tra i 2-3 giorni ma, in casi eccezionali, anche tra le 2 ore e i 5 giorni, in funzione del numero di batteri ingeriti. Nel 75% dei casi le persone infettate non manifestano alcun sintomo anzi tra coloro che li manifestano, solo una piccola parte sviluppa una forma grave della malattia.

Il sintomo prevalente è la diarrea chiara e liquida tanto che la continua perdita di liquidi può portare alla disidratazione che nei casi più gravi può essere mortale. Di solito non compare la febbre mentre possono manifestarsi vomito e crampi alle gambe. È subito necessario provvedere alla reintegrazione dei liquidi e dei sali persi tramite l’assunzione di soluzioni ricche di zuccheri, elettroliti e acqua.

Nei casi più gravi è necessario il ripristino intravenoso dei fluidi che all’inizio, richiede grandi volumi di liquidi, fino ai 4-6 litri. Con un’adeguata reidratazione solo l’1% dei pazienti muore e di solito, in seguito al ripristino dei fluidi, si guarisce.

Gli antibiotici, generalmente tetracicline o ciprofloxacina, possono abbreviare il decorso della malattia e sono utilizzati soprattutto per le forme più gravi o nei pazienti più a rischio.

A livello preventivo è necessario una buona vigilanza sulla pesca, sulla agricoltura, sull’educazione a buone pratiche igienico-sanitarie ma soprattutto sulla depurazione dell’acqua e sul funzionamento del sistema fognario.

Garantire la sicurezza del cibo e dell’acqua e migliorare l’igiene sono, infatti, le condizioni di base per la prevenire le epidemie. È buona norma lavarsi le mani con il sapone prima di iniziare a cucinare o mangiare poiché i vibrioni del colera sono molto sensibili all’azione dei comuni detergenti e disinfettanti.

Attualmente è in commercio un vaccino, che consiste in una sospensione omogenea sterile di uno o più ceppi di Vibrio cholerae inattivati, ad uso orale che può essere assunto almeno due settimane prima della partenza verso paesi a rischio.

Il bellissimo Antinoo amante dell’imperatore Adriano

Antinoo, un giovinetto di appena 13 anni originario della Bitinia, venne notato dall’imperatore Adriano nell’ottobre del 123 d.c. perché era bellissimo, simile a una divinità greca con i capelli ricci e con l’espressione leggermente imbronciata.

La testa di Antinoo, riprodotta in tante statue, è infatti caratterizzata da alcuni elementi ben definiti cioè mento arrotondato, bocca carnosa, naso largo e dritto, sopracciglia inarcate verso l’esterno, chioma folta e ricciuta.

Adriano ne fece subito il suo amante e lo portò con sé in tutti i viaggi che fece nel suo vasto impero. A Roma infatti i mariti potevano avere un’amante o più amanti, purché adolescenti se maschi al fine di avere una posizione dominante, ma dovevano trattare con generosità e rispetto le spose. Così fece Adriano che, pur avendo Antinoo e altri giovani come amanti, onoro’ sempre pubblicamente la moglie Vibia Sabina dalla quale non si separò mai.

Il giovane, amato per sette anni da Adriano, annegò nel Nilo durante una spedizione che risaliva il corso del Nilo nel corso di un viaggio in Egitto al seguito dell’imperatore. La causa della sua morte è carica di misteri e l’ ipotesi più romantica è quella di Cassio Dione che pensava ad un sacrificio del giovane per proteggere Adriano, cinquantaquattrenne ossessionato dall’astrologia, al quale i maghi avevano predetto la morte entro un anno, a meno che un volontario non si fosse immolato al posto suo.

L’imperatore raccontava invece che il giovane era caduto accidentalmente nel Nilo, altri sospettavano invece che fosse stato ucciso per invidia e per il potere che avrebbe potuto rivendicare alla morte di Adriano.

Secondo Cassio Dione l’imperatore raccontava anche ai cortigiani di aver visto di persona una stella, quella di Antinoo, nata dalla sua anima. Adriano alla sua morte pianse, si disperò, lo divinizzò e lo consegnò al ricordo dei posteri dedicandogli città, templi e un’infinità di statue in ogni angolo del suo impero.

La divinizzazione pubblica e formale di una persona era un privilegio riservato solamente all’imperatore e ai membri della sua famiglia, quindi la decisione di Adriano di dichiarare Antinoo un dio e di creare un culto formale a lui dedicato era molto insolita. Inoltre lo fece senza la consultazione ed il permesso del Senato romano come invece era previsto.

Per onorare l’amato, che fu imbalsamato secondo le usanze egizie, egli trasformò il villaggio di Besa in una città chiamata Antinoopoli, organizzò dei giochi in suo onore, diede il suo nome ad una costellazione, fece scolpire innumerevoli statue e busti e coniare monete con l’effige del giovane. Sull’obelisco che ora si trova sul Pincio, a Roma, una serie di geroglifici narrano la storia di Antinoo e la sua morte. Inoltre dichiarò festa pubblica il 27 del mese di novembre, giorno della nascita di Antinoo.

A Villa Adriana, vicino Tivoli, durante la campagna di scavo tra il 2002 e il 2005 sono stati rinvenuti i tre emicicli concentrici di un’esedra su cui dovevano sorgere mura di circa 1.30 m di spessore, cioè l’Antinoeion, il tempio che molto probabilmente era anche la tomba di Antinoo.

L’Antinoeion testimonia il rimpianto per Antinoo, bello e giovane eroe strappato troppo presto dalla morte, che l’imperatore Adriano divinizzò come Osiride, la massima divinità religiosa cui erano assimilati i faraoni. L’edificio, infatti, era riccamente decorato con originali in marmo nero di divinità e sacerdoti, statue di animali e di bassorilievi egittizzanti.

Antinoo è una figura efebica che non giovo’ però alla fama di Adriano nel giudizio dei suoi contemporanei che criticavano non tanto il legame, ma l’ostentato attaccamento che l’imperatore mostrava verso il giovane piangendolo dopo la morte, a loro pensare, come una donnicciola.

Il culto del Dio Antinoo sopravvisse però appena alla morte di Adriano. Con l’avvento del cristianesimo la relazione fra Adriano e Antinoo fu vista, da parte degli scrittori del tardo impero, come offensiva al comune senso del pudore e ai principi della moralità romana. Diverse statue di Antinoo scoperte dagli archeologi portano i segni della violenza con cui furono per questi motivi appositamente danneggiate.

Le termiti, insetti abili costruttori senza capocantiere

Nel 2007 le termiti da Isotteri sono state associate all’ordine dei Blattoidei e quindi, anche se assomigliano di più alle formiche, sono più simili geneticamente agli scarafaggi.

I loro antenati sono passati da mangiatori di frutta a digeritori di legno tra i 250 e i 150 milioni di anni fa, quando nel loro intestino hanno fatto la comparsa alcuni microbi capaci di rompere le capsule di cellulosa lignea e di degradarne gli zuccheri. Da allora, questi insetti e i batteri mangialegno sono entrati in simbiosi e si nutrono insieme.

Le termiti sono oggi oggetto di studi sui carburanti biocombustibili che oggi si ottengono dalla fermentazione degli zuccheri di mais, canna da zucchero, frumento e barbabietola che però così sono sottratti all’uso alimentare.

Si potrebbero invece ottenere carburanti dalla scomposizione della cellulosa degli scarti lignei, compiuta da batteri specializzati come quelli presenti nell’intestino delle termiti.

Per questo, qualche anno fa alcuni ricercatori hanno sequenziato il Dna dall’apparato digerente di una specie di termite del Costarica sperando di capire come la loro microflora intestinale riesca a scindere la biomassa del legno. Questi studi per trovare un metodo di produzione di biocarburante applicabile su vasta scala sono tuttora in corso.

Nel frattempo, attraverso l’utilizzo di batteri ingegnerizzati provenienti dall’intestino delle termiti, si è riusciti a produrre butandiolo, un solvente usato per fabbricare plastiche e fibre elastiche che prima veniva ricavato solo da fonti fossili. Si spera in futuro di avere così un forte risparmio nelle emissioni di CO2.

Esistono quasi 3.000 specie di termiti, di cui solo 28 infestanti e quindi dannose per l’uomo, ma tutte sono organizzate in comunità in cui vige una ferrea divisione di ruoli e di compiti.

Per edificare il termitaio si coordinano centinaia di migliaia di insetti con una forma di comunicazione a corto raggio che consente la gestione delle attività senza un coordinamento centralizzato. Ogni termite cioè scava una pallina di fango, la copre di feromoni e la lascia sul terreno e poi le altre, attratte da questi segnali chimici, depositano le loro palline di fango vicino a quelle già posizionate, arrivando così a costruire pilastri, archi, gallerie in un’area estesissima.

Dagli anni ’90 questo modello di funzionamento viene applicato ai computer con lo scopo di progettare robot che, seguendo solo regole di compatibilità e senza una sequenza predeterminata di azioni da seguire, siano in grado di completare comunque un progetto.

Termes è un robottino che agisce secondo un algoritmo basato sugli stimoli ambientali raccolti dai sensori e che come primo compito ha costruito, insieme ad altri robottini identici, una scala o un muro senza istruzioni predefinite. Robot di questo tipo sarebbero preziosi in zone inaccessibili all’uomo, come luoghi di disastri naturali o altri pianeti ma la robotica degli sciami per ora è stata sviluppata soprattutto in ambito militare.

Le termiti, anche se poi abitano sotto terra, costruiscono termitai alti fino a una decina di metri che sono come polmoni giganteschi che consentono uno scambio di aria tra interno ed esterno mantenendo l’umidità e la temperatura ideali per il benessere dei funghi che si trovano all’interno e che producono nutrienti importanti per le stesse termiti.

In Zambia la terra prelevata vicino ai termitai viene usata come fertilizzante perché, concimando l’ambiente con materiale organico, le termiti arricchiscono il terreno di azoto che favorisce la crescita dei vegetali. Questi insetti riducono inoltre il rischio di incendi, grazie al costante lavoro di rimozione di foglie secche.

Alcune colonie di termiti hanno un “re” e una “regina”, altre solo una regina che però è l’unica a riprodursi generando con l’enorme addome fino a 10 milioni di uova l’anno nel corso di una vita che può durare fino a 50 anni. Gli altri insetti sono sterili, lavorano come soldati o addetti alla costruzione del termitaio.

Ogni termite emette mezzo microgrammo di metano al giorno e si ritiene che collettivamente esse producano tra il 5 e il 19% delle emissioni globali di metano, equivalenti allo 0,27 dei gas serra totali. 

Le termiti di Panama sono velocissime a mordere, hanno una velocità di 70,4 metri al secondo, oltre 250 chilometri all’ora, su una distanza tra la mascella superiore e la mandibila inferiore di appena 1,76 millimetri.

A differenza dei tarli, questi insetti non si riconoscono dale gallerie sulla superficie del legno, ma restano invisibili per anni e sin dai tempi più antichi hanno rappresentato un alimento ricco di grassi e proteine per le popolazioni e forse hanno consentito agli australopitechi di accrescere le dimensioni dei loro cervelli.


Arminio, il principe germanico che sfidò l’Impero romano

Arminio, figlio del capo cherusco Segimero, nacque nel 18 o 17 a.C. e venne richiesto e consegnato, insieme al fratello Flavo, ai romani che usavano prendere come ostaggi i figli dei nemici per evitare rivolte. Flavo fu uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito imperiale e anche Arminio prestò servizio come comandante di un reparto di truppe ausiliarie fornite dai Cherusci durante la campagna di Tiberio in Germania, dal 5 al 6 d. C.

Arminio ottenne anche la cittadinanza romana e divenne perfino cavaliere raggiungendo così il massimo obiettivo al quale potesse aspirare come figlio di barbari. Era descritto da Tacito come un giovane forte di braccio, precipitoso, acceso nel volto e caratterizzato da innata violenza. Dalla consuetudine con le milizie romane aveva appreso qualche conoscenza del latino che inframezzava alla lingua madre.

Augusto voleva annettere la Germania fino al fiume Elba e i romani ormai si trovavano stabilmente oltre il Reno sotto il comando del senatore Publio Quintilio Varo che, già governatore della Siria, fu mandato in Germania come legato di Augusto verso il 7 d. C..

Egli cercava di mutare i costumi del paese introducendo le norme del diritto fra gente abituata a decidere delle sue controversie con la forza delle armi e i principi locali vedevano così tagliate le radici alla loro autorità e alla loro potenza. 

Arminio era secondo in comando e affiancava Varo che si fidava ciecamente di lui e lo considerava prezioso per la conoscenza del luogo e delle genti. In seguito a una serie di ribellioni in Pannonia tuttavia i romani avevano spostato molte forze verso il Danubio e a Varo restavano solo tre legioni.

Nel 9 d.C., Arminio decise di tradire Varo e di cacciare i romani, ergendosi a capo delle tribù germaniche. Forse Arminio credeva nella libertà del suo popolo o forse voleva solo ottenere quel potere che non avrebbe mai ottenuto a Roma non potendo diventare senatore. Segretamente quindi organizzò una sollevazione di tribù germaniche.

Varo si preparava a ritirarsi nei quartieri invernali, a fine dell’estate, ma Arminio lo convinse a muoversi subito con le sue tre legioni a reprimere la rivolta, di cui tuttavia forniva informazioni errate. Lo persuase e inoltre riuscì a fargli percorrere una strada molto pericolosa, all’interno delle foreste germaniche.

Giunti nella selva di Teutoburgo, l’odierna Kalkriese, Arminio si staccò dall’esercito romano per raggiungere e prendere il comando dei germani pronti all’imboscata. Varo era stato avvisato del tradimento, ma non gli aveva dato credito.

La colonna romana, distesa su molti chilometri e formata da tre legioni e diversi reparti ausiliari, venne attaccata ripetutamente senza che i romani potessero opporre una vera e propria resistenza non potendosi schierare a battaglia.

Alla fine del primo giorno, sebbene le perdite fossero numerose, Varo riuscì ad accamparsi su un’altura ma i romani erano ormai accerchiati nel mezzo della foresta. Durante il secondo giorno Varo tentò di portare l’esercito fuori dalla selva ma non riuscì a dispiegare i reparti e il terzo giorno, sotto una pioggia copiosa, i romani furono attaccati senza tregua e decimati. Varo si tolse la vita, mentre i sopravvissuti che cercavano di raggiungere l’uscita della foresta furono quasi tutti massacrati.

Le legioni XVII, XVIII e XIX furono sterminate e mai più ricostituite. Narrava Svetonio che Augusto, ricevuta la notizia, si lasciò crescere la barba ed i capelli e sbatteva di tanto in tanto la testa contro le porte gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”.

Alla morte di Augusto, nel 14 d.C., l’imperatore Tiberio inviò il figliastro Germanico che recuperò due delle tre aquile delle legioni e inflisse una sconfitta devastante ad Arminio.

Una parte dei germani rimase fedele o almeno non ostile ai Romani, fra i quali lo zio Inguiomaro e il fratello Flavo. Era passato invece ai ribelli Segeste, cittadino romano, di cui Arminio aveva preso con la forza in moglie la figlia Tusnelda.

Tra suocero e genero esisteva un odîo profondo e, dopo la disfatta di Varo, Segeste riuscì a far prigioniero Arminio e a riprendersi la figlia ma, in seguito, fu fatto a sua volta prigioniero dal genero. Segeste invocò allora l’aiuto dei Romani, che avevano passato il Reno, e Germanico lo liberò ma tenne come prigioniera Tusnelda che era incinta (15 d. C.). Tusnelda fu poi condotta a Roma ad ornare il trionfo di Germanico (17 d. C.) insieme al figlioletto Tumelico, che fu educato a Ravenna.

Inguiomaro e altre popolazioni si riunirono allora sotto il comando di Arminio ed avvenne un altro scontro con Germanico che si chiuse però senza un vincitore e un vinto. L’esercito romano poi, comandato da Cecina, doveva raggiungere il Reno attraverso un’angusta via fra terre fangose e paludi chiuse fra selve, ma l’assalto che Arminio diede al suo accampamento fu vittoriosamente respinto. Arminio si salvò, Inguiomaro rimase gravemente ferito e l’esercito romano raggiunse indisturbato il Reno (15 d. C.).

Le operazioni militari furono riprese nell’anno seguente dopo che Arminio fece un inutile tentativo d’indurre il fratello Flavo a disertare le file romane. Si combatté un’accanita battaglia nella pianura di Idisiaviso. I Germani furono disfatti e Arminio ferito, scampò per miracolo dalle mani dei Romani, dopo di essersi tinto di sangue il viso per non esser riconosciuto.

Anche una nuova battaglia, avvenuta al confine degli Angrivarî, in luogo che aveva per i Germani il solito vantaggio di boschi e paludi, terminò con la sconfitta di Arminio.

Da allora i Romani non entrarono più in campo in Germania poiché Tiberio preferì abbandonare i principi alle loro discordie intestine. Avvenne una guerra tra Arminio e Maroboduo, nella quale Inguiomaro passò dalla parte di quest’ultimo, non fidandosi di rimanere ancora sotto gli ordini del nipote. Maroboduo dopo una battaglia si ritirò però nei suoi territorî.

Arminio tendeva sempre più ad avere atteggiamenti dispotici e combatté con altri principi con diversa fortuna e morì a 37 anni alla fine per insidie che gli erano state tese dai suoi stessi parenti. La sua figura fu ripresa nel 19° secolo dal rinascente nazionalismo tedesco.