Arminio, il principe germanico che sfidò l’Impero romano

Arminio, figlio del capo cherusco Segimero, nacque nel 18 o 17 a.C. e venne richiesto e consegnato, insieme al fratello Flavo, ai romani che usavano prendere come ostaggi i figli dei nemici per evitare rivolte. Flavo fu uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito imperiale e anche Arminio prestò servizio come comandante di un reparto di truppe ausiliarie fornite dai Cherusci durante la campagna di Tiberio in Germania, dal 5 al 6 d. C.

Arminio ottenne anche la cittadinanza romana e divenne perfino cavaliere raggiungendo così il massimo obiettivo al quale potesse aspirare come figlio di barbari. Era descritto da Tacito come un giovane forte di braccio, precipitoso, acceso nel volto e caratterizzato da innata violenza. Dalla consuetudine con le milizie romane aveva appreso qualche conoscenza del latino che inframezzava alla lingua madre.

Augusto voleva annettere la Germania fino al fiume Elba e i romani ormai si trovavano stabilmente oltre il Reno sotto il comando del senatore Publio Quintilio Varo che, già governatore della Siria, fu mandato in Germania come legato di Augusto verso il 7 d. C..

Egli cercava di mutare i costumi del paese introducendo le norme del diritto fra gente abituata a decidere delle sue controversie con la forza delle armi e i principi locali vedevano così tagliate le radici alla loro autorità e alla loro potenza. 

Arminio era secondo in comando e affiancava Varo che si fidava ciecamente di lui e lo considerava prezioso per la conoscenza del luogo e delle genti. In seguito a una serie di ribellioni in Pannonia tuttavia i romani avevano spostato molte forze verso il Danubio e a Varo restavano solo tre legioni.

Nel 9 d.C., Arminio decise di tradire Varo e di cacciare i romani, ergendosi a capo delle tribù germaniche. Forse Arminio credeva nella libertà del suo popolo o forse voleva solo ottenere quel potere che non avrebbe mai ottenuto a Roma non potendo diventare senatore. Segretamente quindi organizzò una sollevazione di tribù germaniche.

Varo si preparava a ritirarsi nei quartieri invernali, a fine dell’estate, ma Arminio lo convinse a muoversi subito con le sue tre legioni a reprimere la rivolta, di cui tuttavia forniva informazioni errate. Lo persuase e inoltre riuscì a fargli percorrere una strada molto pericolosa, all’interno delle foreste germaniche.

Giunti nella selva di Teutoburgo, l’odierna Kalkriese, Arminio si staccò dall’esercito romano per raggiungere e prendere il comando dei germani pronti all’imboscata. Varo era stato avvisato del tradimento, ma non gli aveva dato credito.

La colonna romana, distesa su molti chilometri e formata da tre legioni e diversi reparti ausiliari, venne attaccata ripetutamente senza che i romani potessero opporre una vera e propria resistenza non potendosi schierare a battaglia.

Alla fine del primo giorno, sebbene le perdite fossero numerose, Varo riuscì ad accamparsi su un’altura ma i romani erano ormai accerchiati nel mezzo della foresta. Durante il secondo giorno Varo tentò di portare l’esercito fuori dalla selva ma non riuscì a dispiegare i reparti e il terzo giorno, sotto una pioggia copiosa, i romani furono attaccati senza tregua e decimati. Varo si tolse la vita, mentre i sopravvissuti che cercavano di raggiungere l’uscita della foresta furono quasi tutti massacrati.

Le legioni XVII, XVIII e XIX furono sterminate e mai più ricostituite. Narrava Svetonio che Augusto, ricevuta la notizia, si lasciò crescere la barba ed i capelli e sbatteva di tanto in tanto la testa contro le porte gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”.

Alla morte di Augusto, nel 14 d.C., l’imperatore Tiberio inviò il figliastro Germanico che recuperò due delle tre aquile delle legioni e inflisse una sconfitta devastante ad Arminio.

Una parte dei germani rimase fedele o almeno non ostile ai Romani, fra i quali lo zio Inguiomaro e il fratello Flavo. Era passato invece ai ribelli Segeste, cittadino romano, di cui Arminio aveva preso con la forza in moglie la figlia Tusnelda.

Tra suocero e genero esisteva un odîo profondo e, dopo la disfatta di Varo, Segeste riuscì a far prigioniero Arminio e a riprendersi la figlia ma, in seguito, fu fatto a sua volta prigioniero dal genero. Segeste invocò allora l’aiuto dei Romani, che avevano passato il Reno, e Germanico lo liberò ma tenne come prigioniera Tusnelda che era incinta (15 d. C.). Tusnelda fu poi condotta a Roma ad ornare il trionfo di Germanico (17 d. C.) insieme al figlioletto Tumelico, che fu educato a Ravenna.

Inguiomaro e altre popolazioni si riunirono allora sotto il comando di Arminio ed avvenne un altro scontro con Germanico che si chiuse però senza un vincitore e un vinto. L’esercito romano poi, comandato da Cecina, doveva raggiungere il Reno attraverso un’angusta via fra terre fangose e paludi chiuse fra selve, ma l’assalto che Arminio diede al suo accampamento fu vittoriosamente respinto. Arminio si salvò, Inguiomaro rimase gravemente ferito e l’esercito romano raggiunse indisturbato il Reno (15 d. C.).

Le operazioni militari furono riprese nell’anno seguente dopo che Arminio fece un inutile tentativo d’indurre il fratello Flavo a disertare le file romane. Si combatté un’accanita battaglia nella pianura di Idisiaviso. I Germani furono disfatti e Arminio ferito, scampò per miracolo dalle mani dei Romani, dopo di essersi tinto di sangue il viso per non esser riconosciuto.

Anche una nuova battaglia, avvenuta al confine degli Angrivarî, in luogo che aveva per i Germani il solito vantaggio di boschi e paludi, terminò con la sconfitta di Arminio.

Da allora i Romani non entrarono più in campo in Germania poiché Tiberio preferì abbandonare i principi alle loro discordie intestine. Avvenne una guerra tra Arminio e Maroboduo, nella quale Inguiomaro passò dalla parte di quest’ultimo, non fidandosi di rimanere ancora sotto gli ordini del nipote. Maroboduo dopo una battaglia si ritirò però nei suoi territorî.

Arminio tendeva sempre più ad avere atteggiamenti dispotici e combatté con altri principi con diversa fortuna e morì a 37 anni alla fine per insidie che gli erano state tese dai suoi stessi parenti. La sua figura fu ripresa nel 19° secolo dal rinascente nazionalismo tedesco.


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