La congiura dell’harem e la morte del faraone Ramses III

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la Congiura dell’harem fu un complotto, ordito per uccidere il faraone egizio Ramses III (1186 a.C.- 1155 a.C.), che aveva a capo Tiye, una delle mogli secondarie del sovrano, al fine di porre sul trono il proprio figlio Pentaur al posto del legittimo erede, il principe Ramses-Amonherkhopeshef, il futuro Ramses IV.

Il faraone fu assassinato ma il principe Pentaur non riuscì ad avere il trono poichè i cospiratori furono catturati, condannati e giustiziati anche se questo non venne descritto nei testi ufficiali perchè i peccati contro Maat, cioè la giustizia e l’ordine cosmico di cui il faraone era garante, erano spesso riportati solo nei documenti d’archivio.

Ramses III era figlio della regina Tiy-Mereneset e di Sethnakht, primo faraone della XX dinastia egizia, che aveva riscattato l’Egitto dal caos in cui era sprofondato negli anni del declino della XIX dinastia.

Ramses III ebbe un prospero regno di ben 32 anni finché non cadde vittima, a sessantacinque anni, della congiura mentre si trovava a Tebe per celebrare l’Heb-Sed, la festa rituale di ringiovanimento e rigenerazione che si teneva tradizionalmente nel trentennale di regno di un faraone, e che dal trentesimo in poi si celebrava ogni tre anni.

Una sera d’inizio aprile del 1155 a.C., Ramses III si trovava presso l’harem, cioè l’insieme di palazzi e appartamenti delle spose e dei figli del re e del loro seguito, quando si consumò l’ attentato alla sua vita.

Tiye, una delle spose reali, aveva stretto patti con maggiordomi, ufficiali, alti dignitari e funzionari d’ogni livello dell’amministrazione e fu in grado di convincerli ad aiutala nel colpo di stato che prevedeva il duplice assassinio del faraone e dell’erede legittimo.

I congiurati si affidarono anche alla magia nera per confondere le guardie dell’harem e consentire così il passaggio delle missive. Incantesimi e formule magiche furono utilizzati anche nel tentativo di rendere Ramses III più vulnerabile perchè era protetto da moltissimi dei e geni e questa tutela era simboleggiata dall’ ureo posto sul suo copricapo reale.

I cospiratori attirarono dalla loro parte addirittura il mago di corte, Prekamenef, e Iyroy, il medico personale di Ramses III, affinchè praticassero determinati sortilegi. Degli incantesimi furono eseguiti pure mentre l’aggressione al re aveva luogo.

Un tempo si pensava che fosse stato utilizzato il veleno siccome pare che il re sia sopravvissuto per alcuni giorni all’attentato. Recenti analisi sulla mummia hanno però evidenziato che fu inferta alla gola del faraone una ferita molto grave, poi nascosta da un bendaggio intorno al collo. Le bende nascondevano una profonda coltellata lungo tutta la gola che aveva raggiunto le vertebre.

Uno studio ha inoltre svelato che l’alluce sinistro del faraone fu reciso probabilmente subito prima del decesso. Per questo gli imbalsamatori misero una sorta di protesi di lino al posto del dito mozzato e posizionarono sei amuleti intorno ai piedi e alle caviglie, per favorire la guarigione delle ferite nell’aldilà.

La forma della frattura al piede fa pensare a un attacco frontale con un’ascia o una spada, in ogni caso a un’arma diversa da quella sottile e appuntita che causò le ferite alla gola. I tagli al collo furono inferti invece da qualcuno che sorprese il re alle spalle, colpendolo con un coltello. Dilaniata e mutilata, la salma fu poi ricostruita in fase di mummificazione e le ferite furono coperte con bende.

La mummia di un giovane uomo sconosciuto fu rinvenuta vicino a quella di Ramses III, nel nascondiglio delle mummie reali di Deir el Bahari, e potrebbe essere del principe Pentaur poichè le mummie, dagli esami effettuati, sembrano essere di padre e figlio. La mummia del giovane inoltre era stata avvolta in una pelle di capra, ritualmente impura.

Subito dopo l’attentato al padre, il principe Ramses IV, che probabilmente aveva circa quarant’anni, prese il controllo della situazione e i congiurati non furono in grado di ricevere abbastanza supporti per eliminarlo.

Ramses convocò dodici magistrati per fare luce sul caso e inquisire i colpevoli. Il Papiro giuridico di Torino, fonte principale su questa vicenda, è il documento prodotto dal quel tribunale da cui risulta che furono condannati anche sette magistrati che avevano tradito il faraone, sottoposti a ricatto da alcuni collaboratori militari, e che la corona passò a Ramses IV, legittimo erede, che però morì solo sei anni dopo l’ascesa al trono.

Il loro peso di silenzio

Il difetto delle parole. Stabiliamo che non c’è altro mezzo d’intenderci e di spiegarci, e finiamo con lo scoprire che restiamo a metà della spiegazione e così lontani dal comprenderci che sarebbe stato molto meglio lasciare agli occhi e al gesto il loro peso di silenzio”.

(José Saramago)

Il mito di Orfeo ed Euridice: la forza dell’amore, della musica e del canto

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Nella Grecia antica, in un mondo pieno di armonia, viveva Orfeo figlio della musa Calliope. Egli era musicista e poeta ed accompagnava i suoi versi con il dolcissimo suono della lira mentre tutti lo ascoltavano estasiati. Al suo canto le fiere uscivano dalle tane e diventavano mansuete e le forze della natura perdevano la loro furia.

Un giorno Orfeo vide la bellissima ninfa Euridice mentre era intenta a raccogliere fiori per farsene una ghirlanda. Orfeo, colpito dalla sua grazia, se ne innamorò perdutamente.

Le nozze si celebrarono in un bosco della Tracia ma, durante il rito nuziale, un denso fumo accompagnato da un sordo sfrigolio offuscò la luce delle fiaccole. All’improvviso Euridice emise un urlo e cadde a terra senza vita poichè una vipera velenosa l’aveva morsa.

Orfeo, come impazzito, andò a nascondersi nei boschi pregando inutilmente le bestie feroci di ucciderlo. Cantò la sua angoscia agli alberi e agli uccelli ma niente riuscì a placare il suo dolore ed allora decise di scendere nell’Averno e di pregare le potenze infernali di restituirgli la sua sposa.

Iniziò subito il suo viaggio verso gli oscuri regni della morte.  Su un fianco del monte Olimpo c’era una caverna che era l’ingresso dell’oltretomba e qui Orfeo cantò il suo inconsolabile dolore e ottenne dal dio degli inferi di varcarne la soglia.

Al suo canto non soltanto le anime dei defunti, ma anche le Furie provavano commozione finché giunse in un luogo coperto da una fitta nebbia dove vide un unico punto luminoso, una sorgente da cui nasceva il fiume Acheronte che diventava sempre più ampio e melmoso.

Sulle nere acque apparve una barca, guidata da un vecchio dal volto  scuro e dagli occhi che brillavano come carboni accesi. Era Caronte che conduceva le anime morte alla cupa reggia di Plutone, dio dell’oltretomba. Il vecchio rimproverò Orfeo di trovarsi in quel luogo ma, placato dalla sua musica melodiosa, lo condusse alla dimora del sovrano.

Al centro di una sala buia sedeva sul trono il dio che aveva al suo fianco la bellissima regina Proserpina e a lei Orfeo rivolse la sua invocazione e le disse anche che avrebbe  preferito morire piuttosto che vivere senza Euridice.

La dea pianse e poi guardò per un istante il suo sposo implorandolo in silenzio e Plutone allora disse a Orfeo che avrebbe potuto condurre la sua sposa fuori dall’ Averno personalmente ma ad una condizione: non avrebbe dovuto  né guardarla né toccarla prima di raggiungere la luce del sole. Se si fosse voltato l’avrebbe persa per sempre.

Orfeo si inchinò al sovrani e si avviò verso l’uscita mentre una forma di donna coperta da un velo si alzò dai piedi del trono e lo seguì silenziosamente. Camminarono a lungo ed il poeta lottava disperatamente con il desiderio di voltarsi a guardare il viso della sposa adorata. All’improvviso gli sorse il dubbio di essere stato ingannato e proprio quando la luce del sole cominciava a filtrare tra le tenebre, Orfeo non fu più capace di resistere si girò.

La fanciulla gli stava di fronte e con le mani si tolse il velo che ancora la ricopriva, Euridice era bella più che mai, ma gli occhi erano tristi. Subito una nebbia fitta e grigia avvolse la giovane che scomparve negli abissi per sempre.

Il dolore di Orfeo fu enorme, egli supplicò ancora una volta gli dei infernali ma il re delle tenebre non s’impietosì una seconda volta e non gli concesse più la grazia.

Orfeo tornò sulla terra, vagò per mesi attraverso boschi e praterie. A poco a poco la sua profonda disperazione trovò conforto nella musica, di cui tracciò le note su una corteccia d’albero. In Grecia non vi era cantore che non avesse copia di quella magica musica che leniva lo straziante dolore dello sposo infelice.

Questo mito affronta la profonda tematica del limite, il problema del rapporto fra amore e morte, l’inesorabilità del destino, la riflessione sul destino ultimo dell’essere umano e dell’universo, su quale sia la sorte riservata nell’aldilà, nell’oltretomba.

Il mito rimarcata anche la forza e la profondità dell’amore, che vince persino i confini della morte ed ha un duplice valore simbolico: da un lato, pone in evidenza la forza della poesia e della musica che hanno il potere di dare nuova vita e dall’altro sottolineano l’impossibilità dell’uomo di realizzare i suoi ideali, che spesso svaniscono proprio nel momento in cui stanno per realizzarsi.

San Rocco protettore dei poveri e degli appestati

Sagra San Rocco 2018 - Album News

il Santo nacque a Montpellier fra il 1345 e il 1350 e morì a Voghera fra il 1376 ed il 1379 e probabilmente non visse più di trentadue anni. I genitori, Jean e Libère De La Croix, erano ricchi ma dediti ad opere di carità.

Al fine di poter avere un figlio, essi avevano rivolto continue preghiere alla Vergine Maria dell’antica Chiesa di Notre-Dame des Tables fino ad ottenere la grazia richiesta.  Pare che il bambino, a cui fu dato il nome di Rocco, fosse nato con una croce vermiglia impressa sul petto come ad anticipare il suo destino. 

Intorno ai vent’anni San Rocco, persi entrambi i genitori, decise di seguire Cristo fino in fondo pertanto vendette tutti i suoi beni, si affiliò al Terz’ordine francescano e, indossato l’abito del pellegrino,  munito  di bastone, mantello, cappello, borraccia e conchiglia fece voto di recarsi a Roma a pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo.

Forse attraversò le Alpi per poi dirigersi verso l’Emilia e l’Umbria, o forse  percorse la Costa Azzurra e scese dalla Liguria lungo il litorale tirrenico. Certo è che nel luglio 1367 era ad Acquapendente, in provincia di Viterbo, dove nonostante la gente fosse in fuga per la peste, chiese di prestare servizio nel locale ospedale mettendosi al servizio di tutti. Tracciando il segno di croce sui malati e invocando Dio per la guarigione degli appestati, qui il Santo  operò miracolose guarigioni.

Ad Acquapendente egli si fermò per circa tre mesi fino al diradarsi dell’epidemia, per poi dirigersi verso l’Emilia Romagna dove il morbo infuriava con maggiore violenza, al fine di poter prestare il proprio soccorso alle vittime della peste.

San Rocco arrivò poi a Roma fra il 1367 e l’inizio del 1368, quando Papa Urbano V era da poco ritornato da Avignone. E’ probabile che si sia recato all’ospedale del Santo Spirito dove avvenne il suo miracolo più famoso cioè la guarigione di un cardinale che liberò dalla peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce. Fu proprio questo cardinale a presentare San Rocco al pontefice.

La partenza da Roma avvenne tra il 1370 ed il 1371 e poi varie tradizioni segnalano la sua presenza a Rimini, Forlì, Cesena, Parma e Bologna. Certo è che nel luglio 1371 era a Piacenza presso l’ospedale di Nostra Signora di Betlemme dove proseguì la sua opera di sostegno e di assistenza ai malati, finché scoprì di essere stato anch’esso colpito dalla peste.

Si rifugiò allora in un bosco vicino Sarmato, in una capanna vicino al fiume Trebbia, dove un cane lo trovò e lo salvò dalla morte per fame portandogli ogni giorno un tozzo di pane, finché il suo ricco padrone, seguendo l’animale, scoprì il suo rifugio. Per questo il Santo è spesso raffigurato in abiti da pellegrino con un cane al suo fianco che gli porge un pezzo di pane. 

Intanto in tutti i posti dove Rocco era passato e aveva guarito col segno di croce, il suo nome era diventato famoso ma, dopo la guarigione, egli riprese il viaggio per tornare in patria.

Però sulla via del ritorno a casa, scambiato per una spia, San Rocco fu arrestato  e condotto a Voghera davanti al governatore. Interrogato, per adempiere ad un voto, non volle rivelare il suo nome dicendo solo di essere “un umile servitore di Gesù Cristo”. Gettato in prigione, vi trascorse cinque anni, vivendo questa nuova dura prova come un mezzo per l’espiazione dei suoi peccati.

Quando sentì la morte ormai vicina, chiese al carceriere di vedere un sacerdote ed allora si verificarono alcuni eventi prodigiosi, che indussero i presenti ad avvisare il Governatore. Le voci si sparsero in fretta, ma quando la porta della cella venne riaperta, San Rocco era già morto: era il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 ed il 1379.

Prima di spirare, il Santo aveva ottenuto da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che avessero invocato il suo nome, nome che venne scoperto dall’anziana madre del Governatore o dalla sua nutrice, che, dal particolare della croce vermiglia sul petto, riconobbe in lui Rocco di Montpellier.

Il Santo fu sepolto con tutti gli onori a Voghera e sulla sua tomba cominciò subito a fiorire il culto del giovane pellegrino di Montpellier, amico degli ultimi, degli appestati e dei poveri. Il Concilio di Costanza nel 1414 lo invocò santo per la liberazione dall’epidemia di peste che, anche in quel luogo, si era propagato durante i lavori conciliari.

 

Gli oggetti

Andria: Gli oggetti "La Téranga": perfetti cadeaux per le vostre ...

“Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.”

Jean -Paul Sartre

Ordalia, pratica giuridica barbarica

13 febbraio 1068: la prova del fuoco di Settimo « Storia di Firenze

L’ordalia era un’antica pratica giuridica, secondo la quale l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova dolorosa o a un duello. La soluzione della controversia era affidata quindi all’ordàlia, o ordalìa secondo la pronuncia francese, termine che deriva dal longobardo ordail e che significa il giudizio di Dio. In Italia infatti tale pratica fu importata dai Longobardi.

Quando il soggetto accusato di una colpa riusciva a superare indenne la prova fisica a cui era sottoposto, gli dei ne garantivano l’onestà e così veniva dichiarato innocente. Una variante consisteva nel duello di Dio, ossia un combattimento a mano armata tra due contendenti, che volevano entrambi il medesimo diritto, e chi ne risultava vincitore ne veniva riconosciuto come titolare.

Gli esiti di queste prove erano inappellabili perchè derivavano dalla sfera divina ed esprimevano la profonda fede che legava questi popoli alla superstizione e alla credenza popolare anche perchè alcune di queste prove fisiche, di cui tre molto diffuse, erano particolarmente cruente.

Nella prova del fuoco o del ferro l’accusato doveva passare a piedi nudi su carboni ardenti, esporsi alle fiamme, stringere un ferro arroventato o immergere un arto in acqua bollente senza riportare alcun tipo di lesioni oppure avere una guarigione in tempi molto rapidi. Tale esito ne decretava in modo insindacabile l’innocenza.

Nella prova dell’ acqua l’accusato veniva gettato legato in acqua e se, dopo un certo intervallo di tempo, veniva ripescato ancora vivo era considerato innocente ma se invece riusciva a liberarsi da solo o era morto era giudicato colpevole.

Nella prova del veleno invece l’accusato era costretto a ingerire una sostanza velenosa e la sua sopravvivenza o la sua morte erano considerate segni di colpevolezza o innocenza.

Queste e tante altre prove furono presenti in Europa fino addirittura al XIII secolo, ma con strascichi fino al XVII, ed è possibile affermare che anche la pratica della tortura utilizzata durante la persecuzione delle streghe, che insanguinò l’Europa tra il Basso Medioevo e l’Età Moderna, traeva origine dall’ordalia perchè vigeva la convinzione che, se innocente, l’imputata non avrebbe subito nè dolore né morte.

Il principio del giudizio di Dio si basava su un sistema giudiziario opposto a quello in vigore non solo in epoca moderna, ma anche a quello esistente in epoca romana. Il magistrato romano infatti, oltre a possedere una formazione giuridica, ricercava anche prove e testimonianze per poter emettere un giudizio equo. Questo sistema invece stava dalla parte di chi, per il solo fatto di aver superato una determinata formalità,  era considerato innocente.

Il fondamento del giudizio era basato sul giuramento, che impegnava direttamente l’anima dell’imputato, e riconduceva il diritto ad un fatto religioso con unici testimoni gli dèi. Formulata l’accusa, al giudice spettava solo decidere se si doveva ricorrere al giuramento o al giudizio di Dio.

Qui finiva la sua competenza e la sentenza era conseguente solo all’esito della modalità stabilita. Erano previsto anche l’intervento dei coniuratoressacramentales, generalmente parenti dell’accusato, che giuravano anch’essi ma solo sul presupposto aprioristico dell’innocenza del congiunto e non su fatti concreti di loro conoscenza.

Si trattava comunque già di un progresso giuridico perchè i parenti sostituivano così il giuramento all’antica faida,  anche se accadeva a volte che le parti non convinte dalla sentenza, ricorressero poi comunque alla faida.

La Chiesa non osteggiava la pratica dell’ordalia per non rischiare che le parti si facessero giustizia da sole. I termini del compromesso erano pertanto che al giudizio di Dio si dovesse ricorrere solo quando il giuramento non soddisfaceva le parti.

Antiche testimonianze evidenziano usanze analoghe all’ordalia nell’antica Mesopotamia e anche nel diritto babilonese ed in particolare nel Codice di Hammurabi, che regnò dal 1792 al 1750 a.C. Ulteriori richiami alla prova del fiume sono contenuti anche nelle leggi medioassire nel periodo dal 1424 al 1076 a.C.

In esse l’applicazione dell’ordalia era prevista soprattutto per accuse di adulterio mosse a donne maritate o  di stregoneria per la divisione di eredità di beni, lasciati dal marito defunto alla vedova, tra questa ed i suoi cognati.

La cosiddetta poena cullei, sarebbe stata applicata anche a Roma al tempo di Tarquino Prisco, e consisteva nel legare i polsi e consegnare una corta spada al presunto colpevole, chiudendolo poi in un sacco assieme ad un gallo, un cane, un serpente e una scimmia o una capra e quindi immergendo il sacco nelle acque di un fiume. Se l’accusato riusciva a liberarsi, aveva evidentemente il consenso degli dei ed era innocente.

Una variante di questa ordalia consisteva nell’incappucciare il condannato e legargli dietro alla schiena una mano. L’altra mano libera teneva una spada con la quale il condannato doveva combattere contro una bestia feroce. Se moriva, veniva seppellito insieme alla bestia dentro un sarcofago, su cui veniva poi dipinta una luna nera. Questo rito è presente in alcune pitture etrusche, dove è raffigurato anche il personaggio denominato Phersu.

Presso gli Ebrei esisteva l’ordalia dell’acqua, che consisteva nel consumo di acqua amara senza subire danno. Si tratta di una pena chiamata Sotah presente nella Torah come prova per una donna accusata di aver commesso adulterio.

Le ordalie erano solitamente sotto il controllo e la supervisione del clero locale, a cui venivano affidate dal giudice. Il giudizio di Dio diveniva così tra formule, preghiere, benedizioni e Messa quasi una funzione religiosa. Del resto, poiché i sacerdoti ascoltavano le confessioni dei parrocchiani, sembra probabile che l’ordalia venisse aggiustata per ottenere il verdetto che il sacerdote riteneva giusto.

Ad esempio veniva prevista l’ordalia del pane e un pezzo di torta, di pane o di formaggio, chiamato boccone maledetto, veniva posto sull’altare  della chiesa. L’accusato recitava una preghiera e, se colpevole, Dio avrebbe inviato l’Arcangelo Gabriele a bloccargli la gola e farlo soffocare. Pochi venivano condannati perchè le dimensioni del boccone erano  stabilite dall’inquisitore, che conosceva la verità attraverso il confessionale.

Prova molto comune era il duello, inizialmente un modo concordato tra le parti per dirimere la lite senza alcun ricorso alla presenza divina, che era disapprovato dalla Chiesa che poi, col tempo, finì per apprezzarlo come mezzo per ribadire i diritti di chiese e monasteri.

La pratica per cui si credeva che le ferite di un cadavere assassinato si sarebbero riaperte e avrebbero sanguinato alla presenza dell’assassino, era anch’essa un’ordalia, usata per l’ultima volta in Inghilterra nel 1628.

In Inghilterra l’ordalia iniziò a cadere in disuso a partire dall’assise di Clarendon del 1166, istituita da Enrico II ma continuò ad essere usata in casi in cui non si riteneva possibile valutare prove, come per omicidi senza testimoni o per crimini come la stregoneria. Nel 1215 poi il quarto concilio laterano vietò al clero cattolico di amministrare le ordalie.

Pertanto nel 1220 Enrico III abolì questa pratica in Inghilterra e vennero istituiti processi davanti ad una giuria per i casi nei quali in precedenza si fosse ricorso ad un’ordalia. Poi anche Federico II di Svezia, con le costituzioni di Melfi del 1231, proibì l’ordalia poiché era considerata irrazionale.La persecuzione delle streghe infine si estinse nel XVII secolo e con essa le ultime vestigia dell’ordalia.  

Alcuni ritengono però che del giudizio divino restino tracce nel processo anglosassone con l’istituzione della giuria popolare in cui dieci o dodici persone senza competenze giuridiche, che rappresentano l’orda barbarica, giudicano in virtù dell’autorità derivante dalla rappresentanza della tribù e quasi su delega di Dio.

 

Sull’amore….

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“Ed è ignobile quell’amante volgare che s’innamora piuttosto del corpo che dell’anima; e del resto non può essere nemmeno costante, giacché è innamorato di qualcosa che costante non è. Non appena appassisce il fiore del corpo, di cui era innamorato, s’invola lontano, smentendo tanti discorsi e tante promesse; ma chi s’innamora di un nobile carattere, ne resta amante per tutta la vita, in quanto si fonde a cosa che resta”.

Platone – (Simposio)