La regina Didone e l’amore per Enea

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Didone, o Elissa o Elisha, era figlia di Belo o Mutto, re di Tiro e nipote e poi anche moglie di Sicheo o Sicarba. Alla morte di Belo salì al trono insieme a suo fratello Pigmalione ma quest’ultimo, avido di potere e geloso delle ricchezze del cognato- zio, uccise Sicarba. Didone seppe del delitto solo quando il marito le apparve in sonno e le rivelò la causa della sua morte.

Forse per evitare la guerra civile, Didone decise di fuggire con un gruppo di fedeli e con i tesori di Sicarba, ma non aveva navi e allora chiese a Pigmalione un incontro per arrivare ad un accordo e il fratello mandò navi e marinai a prenderla. Ma di notte Didone, aiutata dai suoi, caricò di nascosto l’oro a bordo e mise sacchi colmi invece di sabbia sul ponte facendo credere che contenessero tutto l’oro del marito.

Dopo che le navi furono salpate, Didone gettò i sacchi di sabbia in mare e gli uomini di Pigmalione non osando tornare da lui senza il tesoro, fecero rotta verso Cipro dove la regina fece trovare sulla spiaggia 80 ragazze disposte a seguirli ovunque. I marinai seppero poi che il tesoro era ancora a bordo e con l’oro e le ragazze seguirono Didone nell’impresa di fondare una nuova città.

Approdata sulle coste settentrionali dell’Africa, fu accolta benevolmente dagli abitanti che la chiamarono “Didone”, cioè “la fuggitiva“. Le posero però la condizione di poter acquistare solo tanto terreno quanto ne potesse circondare una pelle di bue, allora la regina la fece tagliare a strisce così sottili da circondare una collina sulla quale fondò Cartagine.

La leggenda più antica narra poi che  un re africano si innamorò di lei e che Didone si suicidò per non sposarlo. Virgilio riprese la leggenda nel IV libro dell’Eneide e confermò la fuga di Didone da Tiro e la fondazione di Cartagine, ma attribuì il suicidio al suo amore nei confronti dell’eroe troiano Enea.

Narrò infatti che quando Enea giunse naufrago a Cartagine, la regina si dimostrò molto generosa nei confronti dell’eroe troiano e dei suoi compagni e li accolse nella sua reggia. Per opera di Cupido, nacque poi fra Enea e Didone un profondo sentimento e lei, riuscendo a superare il senso di fedeltà e di affetto per il primo marito, si abbandona al nuovo amore.

Poi però Giove per volere del Fato mandò in apparizione ad Enea Mercurio, il messaggero degli dei, che  ricordò all’eroe troiano che la città da fondare non era in Africa ma in Italia e lo sollecitò a partire.

La regina, con intuito femminile, si accorse dei preparativi per la partenza e, disperata, lo supplicò di non andarsene ma Enea, pur ringraziandola dell’accoglienza ricevuta,  non si fece commuovere dalle suppliche perchè doveva portare a compimento i doveri che il Fato gli aveva assegnato.

Quando la regina vide le navi troiane allontanarsi da Cartagine, pazza di dolore si tolse la vita con la spada dell’eroe. Si diede la morte in modo virile e abbandonò la vita tra la pietà degli dèi e la commiserazione del suo popolo, che accompagnò l’evento nel pianto, come fa il coro di una tragedia. Con il sacrificio di Didone si ristabilì l’ordine e il destino di Enea si poteva compiere.

Quando Enea, nel VI libro dell’Eneide, scese poi nel regno dei morti con la Sibilla per conoscere i suoi discendenti, vide tra le altre anime anche quella di Didone che si trovava nei Campi del Pianto, dove vi erano i morti per passione d’amore.

Enea cercò invano di giustificarsi con lei per essere stato la causa della sua morte, ma la regina tenne gli occhi fissi al suolo, non  gli rispose ed infine si consolò tra le braccia del suo ex marito Sicarba che ricambiava  il suo amore.

 

 

I romanzi picareschi e i bassifondi della Spagna

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I romanzi definiti picareschi raccontavano la situazione sociale dell’epoca, che era quella degli inizi della Modernità, ed assumevano il «picaro» come protagonista. Non si prefiggevano però di ritrarre la realtà in modo fedele ma ne davano una interpretazione in quanto la società spagnola dell’età barocca del XVII secolo  si era notevolmente impoverita e  presentava ormai scollamenti e profondi contrasti.

Il «picaro» era un povero vagabondo che spesso si fermava per un certo periodo di tempo in una città, era un ladro più occasionale che professionale, era cioè un individuo che sfiorava la delinquenza senza essere un vero delinquente. Lo contraddistingueva un’ansia disordinata di libertà, uno sfrenato individualismo e la radicata tendenza alla devianza. Voleva migliorare la propria condizione attraverso mezzi illeciti appoggiandosi alla menzogna ed alla frode, isolato e respinto dal contorno sociale e destinato a un fallimento finale.

Era il prodotto di uno stato di crisi in cui era caduta la società spagnola dopo il tramonto del mondo feudale medioevale e dopo la fine dell’espansione economica rinascimentale, basata sul mercantilismo ed il denaro, che aveva permesso una relativa dinamica sociale.

Nel Medioevo il servo era il fedele dipendente di un signore, con una relativa possibilità d’ascesa nella scala sociale, ma alla fine del secolo XVI, avvenne una grave crisi economica che produsse sottosviluppo e mancanza di posti di lavoro. I nuovi servi erano dei plebei che nelle case dei nobili e dei ricchi venivano assunti con miseri stipendi e prestavano un lavoro umiliante senza speranza di miglioramento.

Nel XVII secolo la povertà divenne un problema sociale anche perché il povero, fattosi più cosciente della propria condizione sociale, si ribellava contro di essa mentre la stratificazione sociale s’irrigidiva proprio perché chi deteneva potere e privilegi avvertiva il pericolo di perderli.

Era un fenomeno diffuso in tutta Europa ma che si manifestava in modo particolarmente aspro e duro in Spagna per l’assenza di forme di precapitalismo e industrializzazione, capaci d’assorbire mano d’opera salariata.

Il «picaro» abbandonava paese d’origine, famiglia ed ogni sentimento religioso e cercava d’ottenere con mezzi illeciti la ricchezza, l’ozio e l’onore. Non era un ribelle nè un rivoluzionario perché non pretendeva di distruggere il sistema e non era neppure un riformatore perchè accettava i canoni vigenti. Cosciente però di non avere altra via, puntava al conseguimento dei traguardi mediante l’uso dell’intelligenza, dell’abilità e della destrezza utilizzando qualsiasi mezzo. Era amoralmente convinto che anche per tutti gli altri il successo fosse dovuto alla corruzione e ad una radicata mancanza di scrupoli.

Da questa visione pessimistica della realtà, nascevano i comportamenti del «picaro», il suo metodo fraudolento ed ingannatore che lo faceva vivere ai margini della società stessa, senza tuttavia esserne bandito. Il  «picaro» in sintesi rifiutava qualunque tipo di lavoro e dipendenza da salario, aspirava alla libertà contro ogni condizionamento servile e viveva in  modo egoistico ed asociale.

I romanzi picareschi offrono divertimento evasivo, una scrittura originale ed  ironica che suscitava un riso amaro ma invitava anche ad una seria meditazione intorno alla penosa situazione in cui si trovava la società. Questi romanzi dovevano impressionare i lettori con lo spettacolo delle vicende di persone che dal gradino più basso della società pretendevano di elevarsi affermando una nuova coscienza individuale che però non aveva la forza di scardinare  il sistema.

Mateo Alemán nel libro Guzmán de Alfarache, forse il romanzo picaresco più discusso, descrive il continuo processo di degradazione del protagonista che fa continui proponimenti di cambio di vita e di innalzamento morale, ma non riesce mai a intraprendere un cammino diverso da quello della devianza.

Nel El Buscón di Quevedo, autore che mostra preoccupazioni sociali e politiche di grande apertura e modernità, i vizi vengono condannati indirettamente mentre vengono descritti ed additati al pubblico che viene sollecitato a capire la penosa situazione sociale in cui vive il protagonista.

L’isteria di Salem Village e la caccia alle streghe

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La comunità di Salem Village era stata fondata nel 1626 per ospitare una stazione di pesca e un emporio commerciale sulla costa atlantica del Massachusetts.

Da centro di scambi commerciali, Salem si era trasformata dopo il 1630 con l’ondata di immigrazione dei pellegrini puritani che fuggivano da un’Europa martoriata dalle guerre di religione, in un vero e proprio paese.

Una delle più terribili  caccia alla streghe ebbe inizio alla fine del 1691. Alcune giovanette erano solite riunirsi, per gioco, cercando di indovinare il loro futuro e una di loro ideò una specie di sfera di cristallo che consisteva in un bianco d’uovo sospeso in un bicchiere pieno d’acqua.

La ragazza, Sarah Cole, disse di aver intravisto galleggiare “uno spettro in sembianza di bara” e tutti pensarono che poteva trattarsi di “malocchio” o “stregoneria malefica”.

Poco tempo dopo altre otto ragazze, comprese tra i dodici e i diciannove anni, cominciarono a mostrare strani comportamenti e allora furono arrestate tre donne: la schiava caraibica del pastore Parris chiamata Tituba che confessò subito di essere una strega, Sarah Good e Sarah Osborne che invece negarono. Furono incarcerate e durante la detenzione, pare per motivi naturali, morì la Osborne.

Il reverendo Parris organizzò vari digiuni presso le famiglie colpite da questi fenomeni, ma proprio durante un incontro alcune giovani ebbero convulsioni, irrigidimento degli arti, ecc.. Poi la diciassettenne Mary Walcott mostrò un morso sul braccio, la dodicenne Ann Putnam gridò invece di vedere un uccello giallo sul cappello di un pastore e Abigail Williams, nipote di Parris, emetteva suoni sibilanti e prendeva dal caminetto tizzoni ardenti lanciandoli per la casa.

Poi fu arrestata Martha Cory che al momento dell’interrogatorio era in grado di far provare a distanza alle giovanette, muovendo semplicemente le mani o le labbra, sensazioni di tipo fisico.

I pastori cominciarono a predicare esplicitamente dal pulpito che si era in presenza di fenomeni di stregoneria vera e propria. Abigail Williams confessò che un ex pastore del luogo, trasferitosi in altra parrocchia, era il principale stregone artefice di quel complotto malefico e così anche lui venne arrestato. Nella primavera del 1692 le carceri di Boston e di altri centri limitrofi erano piene di presunte streghe e stregoni.

Il primo processo si svolse il 2 giugno dello stesso anno. Otto giorni dopo salì sul patibolo Brigdet Bishop e il 29 giugno la corte mandò a morte altre cinque imputate.

Il 5 agosto furono giustiziate altre cinque donne. Due settimane dopo finirono sulla forca due uomini, tra cui il reverendo George Burroughs, che proclamò la propria innocenza. Ai primi di settembre la corte condannò a morte altre sei presunte streghe e poi nello stesso mese altre nove persone furono condannate a morte, a cinque delle quali però fu commutata la pena.

A questo punto quindici pastori puritani, guidati da Increase Mather di Boston, stilarono un documento in cui si dichiarava che prima di condannare a morte qualcuno bisognerebbe avere delle prove inconfutabili poiché i giudici infatti si erano basati prevalentemente sulle confessioni degli accusati.

Sul fine dell’estate del 1692 i giudici della Corte di giustizia si accorsero che le esecuzioni non erano riuscite a metter fine all’ondata di stregoneria che aveva colpito la comunità di Salem. Il 12 ottobre il governatore Phips proibì ogni ulteriore carcerazione o processo per fatti di stregoneria e sciolse la Corte.

Tuttavia, all’inizio del 1693 una speciale Corte di giustizia prese in esame gli ultimi 52 casi: 49 detenuti furono assolti e a tre, condannati a morte, fu commutata la pena. Da allora non si registrò più alcun altro caso di stregoneria. 

Durante il periodo d’isterismo, le fanciulle si erano rese responsabili dell’arresto di quasi duecento persone, di cui trenta vennero condannate a morte. Diciannove furono impiccate, due esecuzioni rinviate perchè le donne erano incinte, vennero alla fine sospese, e cinque sfuggirono alla morte dopo che era stata emessa la sentenza.

Quando la tempesta si calmò più di centocinquante streghe rimasero in prigione, e nonostante fosse stata sospesa l’esecuzione, prima di essere rilasciate dovettero pagare le spese giudiziarie e di detenzione. Tituba fu tra le ultime a essere rilasciata perchè Parris si rifiutò di pagare per lei che  fu pertanto venduta a un altro padrone. Parris stesso, nel 1697, fu costretto a rassegnare le dimissioni da ministro di Salem.

Sembra non vi sia dubbio che a Salem sia stato praticato un certo tipo di magia bianca. Probabilmente furono proprio gli incantesimi esotici e le predizioni del futuro di Tituba a creare gravi squilibri psiconervosi nelle menti della piccola Elizabeth Parris, figlia del reverendo Parris, e delle sue compagne. I puritani condannarono tutte quelle superstizioni, ma nonostante ciò continuarono ad esistere.

I puritani consideravano queste attività come opera del diavolo ma vedevano il diavolo in qualunque cosa fosse contraria alla loro concezione morale e la ribellione naturale degli adolescenti venne interpretata come opera del diavolo.

Le ragazzine di Salem scoprirono presto che le convulsioni davano loro un’opportunità per sfuggire ai rigori di un’educazione strettamente religiosa indulgendo in qualsiasi genere di comportamento oltraggioso senza paura di essere punite. Gli adulti poi erano apparentemente desiderosi di credere che fossero stregate. Infatti, sia il medico che il pastore incoraggiarono l’idea e una volta mossa la prima accusa era impossibile tornare indietro.

La caccia alle streghe venne probabilmente rinfocolata dal desiderio di essere al centro dell’attenzione e di provare nuove ed eccitanti sensazioni. “Lo abbiamo fatto per divertimento”, ammise una delle ragazze.

Oggi a Salem operano più di 400 “streghe autorizzate” e ci sono 22 negozi dove si possono trovare sfere di cristallo, polveri divinatorie, incantesimi vari ed esperte cartomanti.

L’onda – capitolo secondo

La vite del pergolato
Maria si svegliò mentre albeggiava ed il chiarore portato dal sole incominciava ad illuminare le cime degli alberi e gli angoli delle rocce e delle case bianche, mentre il vento sbatteva ancora il mare anche se la tempesta pareva essersi consumata.
Sentiva il corpo intorpidito ed umido che giaceva affondato nella sabbia e con difficoltà si impose di aprire le palpebre e di muovere le mani anche se non riusciva a capire dove fosse.
Guardò avanti a sé e vide ancora tanta sabbia e i colori variopinti delle barche mentre udiva il mare che si infrangeva con colpi secchi e ritmici contro la battigia.
Poi finalmente si rammentò e si sentì smarrita al pensiero di avere trascorso lì tutta la notte sotto la furia della tempesta come un piccolo paguro incapace, nel momento del pericolo, di rannicchiarsi dentro alla propria conchiglia.
Non riusciva ad alzarsi e richiuse gli occhi cercando di recuperare un po’ di forze e poi finalmente si mise in piedi spingendosi forte in alto con le mani ancora seppellite nella sabbia molle e non ancora riscaldata dal sole mattutino.
Incerta sulle gambe si avviò lentamente verso casa e, mentre la pelle piena di sale e di ferite le bruciava e le procurava un dolore acuto e pungente, costeggiò il muretto della strada dietro al quale spuntavano piante di cappero inselvatichite e rovi mezzi seccati pieni però di more rosse e nere.
Dopo un breve tratto, si fermò ansante e stanca e poggiando lo sguardo per terra vide ai suoi piedi una lunga fila di formiche che si toccavano con frenesia le antenne e, con disciplina ed impegno, portavano e rotolavano enormi chicchi gialli.
Fin da piccola spesso restava ore ed ore a guardare questi insetti scuri, ai quali un destino negletto aveva carpito le ali, affascinata dal loro incessante lavorio rituale e dall’occulta regia di chi, certo dell’assenza di un anelito di ribellione, ne preordinava e ne dispensava a piene mani le fatiche.
Abbandonata poi la strada, Maria si inerpicò sul viottolo che, bordato da erbe inaridite e spinose e da grossi massi che ne delimitavano i confini, portava dritto dritto alla sua casa che, sempre più scrostata, odorava ancora di basilico ma aveva la vite del pergolato  ormai avvizzita.
Dalle travi non pendevano più né le trecce d’aglio né i pomodori dal colore rosso acceso e gli scuri delle finestre serrati accentuavano il grande senso di abbandono che aleggiava nell’aria. Prese la grossa chiave scura che si trovava dietro al vaso di prezzemolo e, aperta la porta, entrò senza accendere la luce elettrica.
Si diresse direttamente in camera da letto dove, cercando a tentoni sul comodino, afferrò il grande lume antico e una scatola dai disegni gialli e neri. Accese un fiammifero. Inizialmente la fiamma illuminò il muro creando una atmosfera lugubre e sinistra e piena di ombre ma poi il lume regalò un grande e tremolante fiotto di luce gialla che le rese intima ed sempre più familiare la stanza.
Maria si diresse verso il bagno spogliandosi, si buttò sotto alla doccia bollente e poi, per ritrovare un po’ della sua quotidianità, si contemplò per un attimo nello specchio ovale, attaccato al muro da una catenella dorata. Vide solo due guance consunte ed occhi sconosciuti simili a fessure che la scrutavano  e allora sospirando ritornò in camera da letto, tirò un cassetto del comò, che si aprì scricchiolando e cigolando, e scavando alla rinfusa con le mani trovò ed indossò una camicia da notte rosa che aveva le iniziali di sua nonna ricamate su una manica.
Si avviò quindi in cucina e si preparò del tè che versò dentro ad una delle vecchie tazze sbeccate che, allineate, troneggiavano attaccate a chiodi sopra all’antico focolare accanto al forno del pane ora chiuso da un solido coperchio di metallo ormai arrugginito.
Solo allora sentì bussare forte alla porta, non voleva aprire ma continuavano a picchiare forte, sempre più forte tanto che le sembrava quasi, forse perché le doleva assai la testa, che la casa rimbombasse ed ondeggiasse percossa dalle fondamenta ed allora si decise ed aprì.
Il vecchio stava immobile con i ciuffi di capelli quasi tutti bianchi che spuntavano dalla coppola a quadri grigi. La camicia azzurra era troppo abbondante per quel corpo scheletrito, i pantaloni scuri erano tenuti su da una curria ormai logora e consunta ed il viso scarno ed aggrinzato era incorniciato da un inizio di barba. Gli occhi la fissavano assenti ed un po’ spiritati.
“ Mastro Peppe che ci fate qua voi? ” esclamò incredula e sorpresa.
“ Ma tu chi sei che non ti conosco? ” rispose lui guardandola con sospetto e corrugando la fronte.
“ Come chi sono, sono Maria, sono Maria!” e si sentì scoraggiata ed esausta perché le sembrò che la mala sorte mostrandole lo stordimento del vecchio volesse sottolinearle tutte le miserie del mondo in un solo momento.
“Ah sì Maria, sei Maria. Volevo andare di buon’ora a vedere il mare arrabbiato ed incollerito con tutti gli uomini viventi in questa terra e non so perché ma sono finito qua e vorrei solo tornarmene a casa mia da mia moglie!” disse con un soffio di voce.
Lei lo fissò a lungo e poi gli afferrò la testa con entrambe le mani e lo baciò più e più volte sulle guance affilate perché quando il destino si accanisce con le persone inermi il cuore si riempie di pietà cristiana.
“Mastro Peppe, sedetevi che vi verso un po’ di tè nella tazza.” e Maria lo spinse sopra ad una sedia traballante.
“ Lascia stare, che tanto io non servo più a niente: ho tanto lavorato per tutta la vita ed ora non so più che fare e che farmene di me stesso. I figli sono tutti in America da tanto tempo e di loro mi resta solo l’arrivo ogni tanto di qualche lettera breve, che è sempre uguale, ed i miei nipoti, sangue del mio sangue, non li conosco neanche e neppure un discorso ho mai potuto fare con loro! Io e Concetta ci facevamo compagnia e la sera nel letto ci stringevamo forte la mano mentre cercavamo di farci venire quel sonno che ormai pareva più che altro un regalo del cielo. Ora lei non c’è più e la solitudine mi torce le budella e mi pare che un topo affamato mi rosichi dentro e vorrei tanto raggiungerla al più presto. Maria, ma che campo a fare oramai? ” e si portò una mano sugli occhi.
“Mastro Peppe, non so rispondervi perché non so nemmeno più perchè campo io ma posso dirvi che c’è tanta gente che vi vuole bene e ci sono tanti bei ricordi ai quali pensare! Vi ricordate di quella quieta sera di fine estate in cui, insieme a tanti amici, veniste qui a giocare a carte e poi venne dal cielo a grande velocità quel diluvio inaspettato e correndo dentro ci ritrovammo proprio qui in questa stanza e tutti, aspettando che spiovesse, cominciarono a fare i loro discorsi strani? “
Il viso del vecchio si schiarì e quella serata gli si parò davanti come fosse stata vissuta appena la sera prima e lui, chiudendo gli occhi, cominciò lentamente a parlare.
“ Io raccontai di quella volta in cui io e mio fratello più grande eravamo andati in campagna a fare fasci di legna ma avevamo preso un po’ a giocare e non ci accorgemmo che si era fatto scuro. Ci avviammo allora di buona lena verso casa quando improvvisamente comparve da lontano un uomo grande e grosso, quasi un gigante, che allungò una gamba e questa gamba divenne lunga lunga tanto che egli riuscì subito a scavalcare un enorme fossato. La paura ci prese subito al cuore e noi ci buttammo giù per il sentiero, così velocemente che neanche una lepre ci poteva pigliare, tanto che non so neanch’io come fu che non ci rompemmo tutte le ossa. Quando ci presentammo al cospetto di mio padre già pronto a darci una severa punizione per il ritardo, il colore delle nostre guance, il sudore che ci scolava dappertutto e l’incapacità di proferire parola, ci salvarono dalle scoppole e dalle legnate che ormai ci erano destinate.” Mastro Peppe ansimò per il discorso fatto tutto d’un fiato.
“E del racconto di Agnesina ve ne ricordate?” incalzò Maria.
“ E come no! Ma ora conta tu che mi piace pure stare ad ascoltare.” e poggiò il capo su un gomito che aveva abbandonato sulla tavola.
Maria gli prese una mano legnosa e gli accarezzò il dorso dal quale spuntavano grosse vene bluastre e si rammentò di quando, minuta ed elettrizzata, stava accovacciata sul grande letto ed ascoltava in silenzio, guardando in mezzo alle sbarre di ferro con gli occhi sgranati e qualche brivido addosso, tutte quelle persone che formavano uno strano presepe incantato.
La stanza aveva i muri completamente tappezzati e ricoperti da Crocefissi e da quadri raffiguranti i Santi mentre una piccola statua di Santa Rita con il saio marrone cucito a mano, che era stata messa sotto ad una spessa campana di vetro, le metteva soggezione appoggiata sopra ad un tavolino.
“Agnesina raccontò di quando, senza motivo alcuno e senza avvisaglia, morì la sua migliore amica Santuzza e di quanto non riuscisse a capacitarsene e a farsene una ragione perché erano sempre state inseparabili fin da piccole e crescendo, per farsi compagnia, andavano persino a lavorare assieme nei campi. Aveva pensato perciò, presa da immensa nostalgia, di tagliarle una ciocca di capelli quand’ella era già dentro alla bara e di conservarla chiusa in un fazzoletto in mezzo ai suoi vestiti pensando di tenersela così per sempre vicina. Ma un giorno salendo su per la montagna, improvvisamente Santuzza le si parò davanti agli occhi vestita di chiaro e, dondolandosi avanti e indietro sopra ad un ramo di ulivo, con voce supplicante e strascicata e gli occhi intrisi di lacrime, le chiese di restituirle i suoi capelli. Agnesina diventò bianca come il latte e restò ferma dov’era per lungo tempo perché i suoi piedi non ne volevano più sapere di muoversi mentre sentiva che dalla bocca le usciva pure un po’ di bava e forse forse si era fatta pure una pisciatina addosso.Quando finalmente riuscì a camminare, tornò a casa e si mise a letto per tre giorni con le lenzuola tirate sulla testa e solo dopo, accompagnata da alcuni parenti d’animo forte, riuscì a recarsi al camposanto. Mise la ciocca rubata sulla tomba dell’amica che da allora per certo trovò pace, là dove si trovava, perché mai più tornò a scantarla e ad impietrirla con il suo dolore.” terminò Maria sentendosi ancora qualche tremito addosso.
Mastro Peppe invece sorrise:” Ora me ne vado che mi sento troppo stanco e poi lasciamo alcuni di questi racconti da parte per un’altra volta così avremo ancora tante cose da ricordare!”.
Maria lo aiutò ad uscire. ” Aspettate, vi accompagno a casa.” lo pregò con tono accorato.
“ No, ora mi sento bene e me ne voglio tornare da solo.” rispose con orgoglio.
“Addio Mastro Peppe e state attento a non cadere”. Lo seguì con lo sguardo fin quando non vide dall’alto la coppola girare sulla strada e poi scomparire.
Ora il caldo faceva ormai assordare la vallata, le cicale parevano assai infuriate ed il mare verde in lontananza pareva brillare e tremolare sotto il sole che ormai alto nel cielo con malcelata indolenza lo stava a guardare.

 

 

 

 

L’onda – capitolo primo

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Il prologo

L’onda le entrò nel cuore e poi rifluì verso il mare e le lasciò la solita tristezza che ormai da lungo tempo la teneva per mano. Maria allora, stringendo i denti per la fatica, trascinò la barca nell’acqua, issò la vela marrone e gialla e lasciò che il vento li portasse via in mezzo alla spuma ed al blu cobalto del mare.

Mentre la minuscola barca sussultava e scorreva dove la portava il vento quasi alla deriva dell’orizzonte, là dove la forza della natura la spingeva con impazienza, lei si sdraiò a pancia in giù sulle tavole di legno con le mani ed i piedi affondati nell’acqua. Restò così senza muoversi con le orecchie tese e gli occhi socchiusi mentre alghe vagabonde galleggiavano trasportate dalla corrente.

La sfuriata di libeccio si abbatteva, sollevandola, sull’acqua salmastra e le sferzava le braccia mentre il mare montava, si gonfiava gorgogliando e sobbalzando faceva sbattere con violenza la prua e vibrare rumorosamente le cime e la vela.

La spiaggia abbandonata apparve, come per malia, incastrata fra scogliere aspre e dirupate ed i suoi sassolini bianchi le sembrarono l’approdo sperato. Così Maria si lasciò scivolare nell’acqua scura della riva, trascinò con uno sforzo immane la barca sui sassi ed agganciò una cima ad un grosso masso millenario.

Appoggiò i piedi sulle pietre puntute che la ferivavo e la bruciavano e, dopo aver fatto pochi passi, si fermò e guardò attorno a sé le rocce che, flagellate dal continuo fluire dell’acqua e del vento, parevano gettate e precipitate con furia dalla rupe. Come assopite, giacevano ora frantumate in blocchi scomposti ai suoi piedi.

Poi, lentamente, si distese spossata mentre gocce di sudore le imperlavano la fronte e le scendevano sugli occhi offuscando i contorni di tutto quanto le stava attorno.

Allora ritornò indietro nel tempo e si rivide bambina nella casa soleggiata e bianca che odorava di basilico ed aveva il porticato ricoperto da una folta vite da cui pendevano grappoli d’uva dagli acini neri e succosi ma ancora acerbi.

Riudì le voci stridule e sfacciate dei bambini e poi le urla adirate di sua nonna che, risvegliata dalla dormitina pomeridiana, acchiappandole con forza l’orecchio, le diceva che ci voleva riguardo per i frutti che il buon Dio, nella sua incomprensibile misericordia, aveva donato agli uomini.

Lei invece, con il naso graffiato ed i piedi scalzi e non rispettosa delle antiche creanze e dei giusti insegnamenti, li sperperava e scagliava tutti gli acini che le capitavano a tiro contro i gechi indifesi, povere creature create, che stavano arrampicate ed appiccicate ai muri scrostati. Aveva premura soltanto di schivare, con mira quasi perfetta, le trecce d’aglio ed i penduli pomodori rossi agganciati alle vecchie e tarlate travi di legno.

Da allora non era stata più capace neanche di staccare un fiore dalla terra, caso mai anche quel gesto potesse non essere gradito al divino Creatore, e poi nel tempo, con l’osservanza di ogni cristiana costumanza, aveva preso addirittura usanza di ciarlare con le piante e di ragionarci lungamente.

Le pareva quasi di percepire ancora il calore dell’orecchio sordo e dolorante, quando improvvisamente intuì una presenza vicina ed allora aprì gli occhi volgendo lo sguardo in quella direzione e si accorse che lui la stava fissando immobile e bianco come i sassi che li circondavano.

Vedeva i suoi occhi fermi e scuri che la osservavano austeri e pensosi e sentiva che entrambi non avevano paura e potevano restare così a lungo a parlarsi muti ed a raccontarsi i reciproci e nascosti segreti.

Maria allungò un braccio e schiuse lentamente una mano ed il gabbiano le si avvicinò piano piano fino quasi a sfiorarla e poi si girò, spiccò un balzo e si librò nell’aria. Lo vide sbattere con vigore le ali e poi planare fra le correnti del cielo, traboccante di basse nuvole dal colore grigio scuro e minacciose, volteggiando imponente senza meta per poi sparire con una larga virata dietro ad un costone giallo di zolfo.

Si alzò allora intorpidita, spinse nuovamente la barca nell’acqua, riuscì a stento ad alzare di nuovo la vela e si ributtò nel mare selvaggio ed ostile mentre il vento ormai ululava e li sbatacchiava a suo piacimento. Solo dopo tanto tempo, quando ormai aveva perso il senso dell’attesa e tutto le pareva infinito, si avvide di essere arrivata in una insenatura piena di sabbia racchiusa fra due promontori rossastri e rugosi.

Ruzzolò sulla riva stremata e, tremante e con le mani ed il corpo dolenti, tirò la barca a secco e poi improvvisamente le sue ginocchia si piegarono e lei prima barcollò e poi cadde a terra. Fitte lacrime cominciarono a gocciolarle copiose e calde sulle guance infantili e scarne fino a caderle sulla corta veste bianca già grondante di acqua ed ormai lacera e sporca.

In quell’istante, inaspettata e violenta, l’onda smisurata le entrò dentro e le spezzò il cuore e lei si trovò attonita e stupita fra il vento che le frustava e le arruffava i capelli castani ormai ridotti a cordame e le portava tra le mani la spuma del mare ed il grido lontano e rauco di un gabbiano.

L’ombra della sera cominciò a scendere dall’alto della montagna ed avvolse a poco a poco i lentischi, colmi di lucide foglie verde scuro e di rosse bacche tondeggianti, che sorprese abbarbicati ed avvinghiati alla terra secca e scura. Avvolse poi  gli ulivi imperiosi e stanchi che si ergevano nei terrazzati e le profumate e ritrose ginestre, affacciate fra i fichi d’india ieratici e spinosi , fino ad abbracciare via via tutta la spiaggia correndo veloce dall’una all’altra costa. Così che alla fine tutto divenne definitivamente e semplicemente notte.

L’incantevole teatro bolognese Aldrovandi Mazzacorati

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Morto il padre, il Conte Gianfrancesco Aldrovandi per diritto di primogenitura ereditò  un palazzo, situato nella campagna bolognese, dove la famiglia trascorreva i mesi estivi. Il Palazzo, forse cinquecentesco, aveva l’aspetto di un castello-fortilizio contornato da alte mura di cinta.

Gianfrancesco (1728-1780), conte, senatore, gonfaloniere,  libertino e  Pastore Arcade, si era sposato da poco con Lucrezia Fontanelli, figlia del letterato modenese Vincenzo Fontanelli presso il quale si era rifugiato per sfuggire a nozze non gradite a Bologna.

Divenuto proprietario, egli volle ristrutturare il palazzo per farne una dimora degna di ricevere nobili, letterati, alti prelati e rappresentanti politici e si avvalse dell’opera dell’architetto Francesco Tadolini e di suo fratello Petronio, plasticatore e autore degli stucchi  della galleria passante. Il Tadolini fra il 1770 e il 1772 portò a compimento la facciata.

Il Palazzo venne sopraelevato di un piano e sulla facciata principale venne costruito un elegante colonnato ad anfiteatro con due barchesse laterali che ingentilirono la struttura e che nascosero anche le casupole, i ricoveri degli animali e le attrezzature che servivano per il lavoro dei campi.

Gianfrancesco Aldrovandi, attore e scrittore di poemetti arcadici ed intriso delle idee di Voltaire, di cui aveva letto gli scritti tradotti dal suocero, realizzò nell’ala sinistra della Villa un Teatro stabile che è un pregevole esempio di Teatro privato in Villa settecentesca ed uno dei migliori per l’acustica. Il teatro fu inaugurato il 24 settembre del 1763 con la tragedia di Voltaire “ Alzira” interpretato dai nobili stessi.

Anche se di dimensioni ridotte è un Teatro in piena regola poichè ha 85 posti, un doppio accesso dall’esterno, una uscita che lo collega con i saloni interni, palcoscenico sopraelevato, retropalco, attrezzeria e foyer. La sala è rettangolare, circondata da due ordini di balconate disposte ad “ U”.

Vi sono 24  sculture di gesso fra telamoni e cariatidi che abbelliscono le strutture portanti delle balconate e che una volta fungevano da tedofori per l’illuminazione e venivano adornate con ramoscelli e  ghirlande. Ogni scultura è diversa ma ha la parte terminale a forma di tritone, mentre le quattro che terminano  a colonna hanno  un cesto posato sulla testa, che probabilmente durante le rappresentazioni era riempito con frutta e fiori. La balconata superiore presentava allora  una porta che collegava con le stanze private della famiglia.

Le pareti laterali della platea sono affrescate a “ trompe l’oeil” con putti e ghirlande per dare l’impressione di essere in un giardino fiorito, mentre le due pareti laterali di fondo rappresentano scene di caccia. Invece le pareti delle due balconate superiori presentano affreschi in stile neoclassico imperiale.

Dopo la morte di Carlo Filippo avvenuta nel 1824 e l’estinzione del ramo degli Aldrovandi, la Villa rimase chiusa per alcuni anni e poi passò a Giuseppe Mazzacorati che si limitò a fare scrivere il suo nome sul timpano e a mettere le sue insegne. Alla fine del 1800 la villa venne acquistata dalla famiglia Sarti  che la cedette nel 1928  ai Fasci di combattimento che adibirono il complesso a soggiorno estivo per bambini e in seguito la villa divenne ospedale tisiatrico. Ora è di proprietà della Regione Emilia Romagna.

Lo sguardo e la comunicazione

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Gli occhi sono molto importanti nel processo di comunicazione in quanto l’occhio umano è capace di rispondere ad un milione e mezzo di segnali simultanei e il contatto iniziale tra le persone è abitualmente basato sul contatto oculare.

Le donne tendono a guardare di più degli uomini e per capire se hanno interesse per un uomo bisogna osservare il bianco dei loro occhi in quanto se si vede più bianco del normale, significa che sono interessate. Anche la pupilla è più dilatata mentre il centro dell’iride si allarga per permettere a più luce di entrare e comunica ai potenziali partner che sono appunto oggetto di interesse.

Gli occhi blu in particolare mostrano chiaramente la dilatazione della pupilla. Le antiche cortigiane italiane utilizzavano minute quantità della pianta velenosa ”belladonna” per dilatare le pupille come elemento di bellezza.

Se il contatto oculare fra uomo e donna dura più di una frazione di secondo è possibile che lei stia cercando di trasmettere un messaggio. Inoltre quando una ragazza batte rapidamente le palpebre, poichè il battito degli occhi è legato alla velocità dei nostri pensieri, significa che ad ogni battito di palpebre cambia la sua  visione mentale.

Anche quando una ragazza  rivolge verso una persona il piede questo potrebbe significare interesse. Questo potrebbe essere valido anche alle volte in cui una donna ha le gambe incrociate ed uno dei suoi piedi è rivolto in una direzione.

L’occhio aperto, privo di palpebre, era simbolo di trascendenza e spiritualità mentre nell’Antico Testamento la divinità era simboleggiata da un occhio inserito in un triangolo. Il terzo occhio poi era simbolo di chiaroveggenza e intuizione, che vedeva oltre le apparenze, mentre vedersi senza occhi o ciechi rimanda a un’incapacità di vedere qualcosa che ci riguarda in prima persona.

Ma se l’occhio unico, che si ripresenta in tante culture, è specchio dello spirito, al tempo stesso può essere simbolo di negatività come nel caso dei Ciclopi. L’occhio che fissa è simbolo anche del malocchio, ovvero della capacità di trasmettere odio o avversione attraverso lo sguardo. In diverse parti del mondo si ritiene che in tal caso sia necessario fare alcuni rituali più o meno semplici per allontanare la cattiva sorte.

L’occhio forse più famoso è comunque quello inserito nel triangolo equilatero, che a livello simbolico corrisponde al numero tre quello della perfezione, talvolta accompagnato dal nome ebraico di Dio, Jahvè. Questo simbolo è stato poi acquisito dai massoni che gli attribuiscono due principali significati: il Sole sul piano fisico e Dio sul piano spirituale mentre la base del triangolo simboleggia la Durata e i lati le tenebre e la luce.

La disciplina dell’iridologia permetterebbe inoltre di individuare eventuali problemi psichici o fisici attraverso la lettura dell’iride. L’osservazione eseguita dall’iridologo viene confrontata con apposite macchie topografiche dell’iride, partendo dal presupposto che segni, anelli e macchie presenti sull’iride corrispondano a determinati organi corporei e a una maggiore o minore predisposizione a certe malattie.  Inoltre i movimenti della pupilla rappresenterebbero un vero e proprio linguaggio in grado di trasmettere specifici messaggi

Il bacio nelle varie culture

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Durante il medioevo il bacio nel diritto privato, il baciatico, ufficializzava il dovere del promesso sposo di dare una dote alla fidanzata di cui essa ne sarebbe entrata in possesso della metà in caso di morte del fidanzato. Il bacio ha perso il suo significato giuridico ed ora ha un significato solo personale e di consuetudine.

Abitualmente il bacio ha la funzione di saluto quando si incontrano amici e/o parenti. Tre baci sono lo standard nei Paesi Bassi e in Belgio, ma il triplo bacio è tipico delle culture ortodosse, in particolare in Ucraina e Serbia ma non in Romania, Bulgaria e Grecia. In questo caso il bacio non mira ad esprimere affetto, ma è appunto esclusivamente un saluto.

Oltre ad un saluto il bacio diviene un gesto d’affetto se scambiato in pieno viso oppure può diventare pieno di emozioni sessuali tra due innamorati. Presso gli Eschimesi il contatto fisico avviene strofinando i propri nasi uno contro l’altro ed aspirando contemporaneamente e per questo motivo viene definito bacio olfattivo. L’olfatto mette in moto le zone del piacere situate nel cervello attraverso la percezione sia degli odori che di altre sostanze chimiche tra cui gli ormoni.

Anche in Thailandia il bacio coinvolge anche l’odorato, si appoggia la punta del naso vicino alla bocca dell’amato e si inspira lentamente e profondamente. Quanto più lungo e delicato è il respiro, più è prezioso il bacio. In Nuova Zelanda, invece, gli indigeni esprimono il loro affetto abbracciandosi e accostando le rispettive fronti fino a sfiorarsi con la punta del naso.

In Cina, invece, il bacio non é praticato per motivi di igiene, mentre in Giappone è considerato poco educato se eseguito in pubblico. In Kenya presso la tribù Samburu  le labbra devono essere utilizzate esclusivamente per mangiare e i Masai sono ancora più intransigenti poiché considerano il bacio un gesto impuro.
Per i Trobiander, che risiedono in Papua Nuova Guinea, il bacio invece consiste nel mordicchiare sia le sopracciglia che un ciuffo di capelli del proprio amato. Il gesto è molto sensuale e pertanto è assolutamente vietato in pubblico.

Il kamasutra dice infine che una fanciulla può dare solo tre tipi di baci. E’ previsto il bacio simbolico sfiorando le labbra dell’innamorato, il bacio fremente pressando le labbra contro quelle del patner e muovendo il labbro inferiore e il bacio a contatto, toccando le labbra dell’innamorato con la lingua a occhi socchiusi e abbandonando le mani in quelle di lui.

Il disco labiale, elemento di bellezza

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Il disco labiale è una pratica di modifica decorativa del corpo, usata tradizionalmente da alcuni popoli africani ed sudamericani, che prevede il piercing del labbro e la successiva dilatazione per l’inserimento di un disco di legno, di argilla o di terracotta.

In Africa la tradizione del disco labiale si trova nella cultura di numerosi popoli e le dimensioni del disco sono spesso associate all’importanza sociale di chi lo indossa. I Sara in Ciad lo applicano a entrambe le labbra mentre i Makonde, che si trovano in Tanzania e in Monzambico, solo a quello superiore.

Presso i Surma e i Mursi poi, che abitano il basso corso del fiume Omo in Etiopia, il disco labiale è applicato solo delle donne, per simboleggiare la maturità sessuale, a 15 o 16 anni o a 6 o 12 mesi prima del matrimonio. Alcuni popoli, per esempio i Nuba in Sudan, hanno una tradizione analoga ma nel labbro viene inserito un oggetto di forma non circolare.

Il disco inserito successivamente viene sostituito con dischi di dimensioni maggiori, man mano che le labbra si adattano alla sua forma. Quindi a seconda delle tradizioni, questa tecnica può essere applicata al labbro superiore o a quello inferiore o a entrambi.

In Sudamerica la pratica era diffusa presso le popolazioni Moche ed era chiamata Tembetà. La foratura, seguita dalla dilatazione del foro, prevedeva alla fine la  collocazione di una specie di tappo.

Alcuni antropologi ipotizzano che tale pratica servisse anche a scoraggiare il rapimento delle donne da parte degli schiavisti, mentre altri credono sia solo un elemento di bellezza.