Alicudi: i”tagliatori” di tempeste e le “mahare” volanti

ReportageSicilia: LA DESOLATA E CUPA ALICUDI DI ALEXANDRE DUMAS

L’isola di Alicudi, che i greci chiamavano Erikussa cioè ricca di erica, a causa della sua estrema perifericità fra le sette Isole Eolie è sempre stata scarsamente popolata. Da un massimo di 1500 abitanti, presenti tra fine ‘800 e inizio ‘900, dopo una massiccia ondata di emigrazione soprattutto verso l’Australia, si è spopolata fino ad avere oggi solo un centinaio di abitanti.

Un antico rito locale prevede che, quando all’orizzonte si intravede una tromba marina o una grande mareggiata che si dirige verso una barca, un ‘tagliatore’ si posizioni a prua e cominci a sussurrare una formula accompagnando le parole con una precisa serie di movimenti delle mani. Così la tempesta, man mano che si avvicina alla barca, si affievolisce sempre di più fino a diventare un filo che, a pochi centimetri dalle mani del pescatore, si spezza in due parti lasciando incolume l’equipaggio.

Ancora oggi le piccole flotte di pescatori non si allontanano mai troppo dalle coste se non con un ‘tagliatore’ a bordo e in tanti sull’isola affermano di conoscere il rituale e di averlo più volte praticato con successo riuscendo a salvarsi dalle insidie delle onde.

La tradizione dei ‘tagliatori’ suggerisce una sorta di potere che il dio dei venti Eolo ha donato ai suoi abitanti tanto più che uno stretto legame degli isolani con il vento è attestato anche dai numerosi racconti circa a vere e proprie piogge di sassi di pomice la cui causa è attribuita, secondo le credenze, al fuddittu o a volte anche al diavolo.

Alicudi è però soprattutto l’isola delle mahare cioè le donne che volano e che hanno delle visioni straordinarie. Stando ai racconti popolari esse erano capaci di trasformarsi in corvi e gatti, di gettare il malocchio e di fare potenti incantesimi, ma soprattutto potevano alzarsi in volo per raggiungere Palermo, la Tunisia o altri luoghi della costa africana da cui rientravano portando oggetti e abiti che nessuno aveva mai visto.

Le streghe arcudare erano capaci di levitare in aria, di cavalcare scope e di spiccare il volo alla guida delle piccole barche dei pescatori che in molti dicevano di vedere in cielo durante le notti stellate e di luna piena. Spesso queste mahare erano le mogli dei pescatori e per questo volavano alla ricerca dei mariti al fine di proteggerli dalle insidie del mare, di propiziarne la pesca e di sorvegliarne il rientro a casa.

Le mahare tenevano sulle spiagge anche dei convegni dove imbandivano tavole ricche di ogni prelibatezza che, stando ai racconti, si tenevano su lembi di spiaggia inaccessibili dalla terra e nascosti dalle scogliere. Molti ne prendevano parte stando ben attenti al rispetto di un tabù che imponeva di non lamentarsi della qualità del cibo e delle bevande offerte, spesso amare, pena l’essere bastonati e gettati in mare.

Oggi gli arcudari affermano di non vedere più nulla da tempo e nemmeno le tre donne vestite di nero che venivano avvistate in spiaggia intente nella preparazione di una pozione magica con dell’acqua in una ciotola mentre recitavano formule segrete. La pozione a volte era utilizzata dalle mahare per spiccare il volo, altre volte era offerta ai pescatori aprendo loro le porte di regni fantastici.

Secondo alcune ipotesi, la causa di queste visioni straordinarie è da attribuire al consumo di pane prodotto con segale infestata da un fungo parassita delle graminacee, conosciuto anche con il nome di ergot, in francese ‘sperone’, a causa delle formazioni a forma di corna che crescono sulle sue spighe da cui deriva anche il nome popolare di segale cornuta’.

Questo fungo ha potenti proprietà allucinatorie e psichedeliche tanto che fu utilizzato dallo scienziato Albert Hoffman durante i suoi esperimenti che portarono alla scoperta dell’LSD. L’assunzione di forti quantità del fungo provoca il “Fuoco di Sant’Antonio”, “Fuoco sacro”, o “Male degli ardenti”, a dosi più contenute invece il parassita provoca allucinazioni fortissime e profondi stati visionari

Probabilmente gli arcudari avevano consumato in massa pane prodotto con una miscela di vari cereali, tra cui la segale colpita dall’ergot, e erano stati quindi protagonisti di allucinazioni collettive che si sono protratte per anni fino a produrre tanti racconti e storie fantastiche.

Sembra che la vicenda possa essere collocata tra il 1902 e il 1905, periodo in cui carestie, emigrazione e povertà avevano costretto gli isolani a panificare con derrate di segale colpite dall’ergot e non a caso molti racconti tramandano storie di lauti banchetti e feste in spiaggia ricche di ogni prelibatezza.

Si ritiene inoltre che l’assunzione inconsapevole di una sostanza che produce effetti allucinatori conduca ad esperienze più profonde e più incontrollabili rispetto a quelle di chi assume una sostanza conscio delle sue proprietà visionarie.

Secondo questa ipotesi in quei tre anni gli isolani dovettero fare i conti con una percezione espansa della realtà e abituarsi a stati alterati di coscienza fino al punto di ritenere le visioni reali.

Appare strano però che credenze e racconti così capillari e inseriti in schemi narrativi possano essersi prodotti nell’arco di soli tre anni e pertanto è plausibile anche l’ipotesi di un possibile uso cultuale della pianta, retaggio di antiche pratiche religiose.

Le streghe infatti, in tutta la tradizione europea, sono esperte erboriste capaci di produrre unguenti e pozioni in grado di condurre in dimensioni magiche e soprannaturali. Non è da escludere quindi che le mahare di Alicudi conoscessero bene l’ergot e le sue proprietà visionarie e lo utilizzassero a scopi rituali. Inoltre è noto che la maggior parte degli agenti psicotropi contenuti nelle piante utilizzate dalle streghe nelle loro ricette sarebbero contraddistinti da un forte sapore amaro.

Secondo questa ipotesi, le donne volanti di Alicudi si inseriscono nel vasto campo della stregoneria europea e del suo stretto rapporto con gli unguenti magici che permettevano di volare ‘in spirito’ e di raggiungere luoghi remoti, prerogativa con profonde connotazioni sciamaniche che, nel caso delle donne arcudare, vengono a galla anche nella loro capacità di interagire con il mondo animale attraverso le trasformazioni in corvi.

La presenza della segale cornuta suggerisce anche la possibilità del retaggio di un arcaico legame degli arcudari con le loro origini greche e in particolar modo con i rituali misterici che si tenevano ad Eleusi in onore di Demetra nell’antica Grecia.

I Misteri Eleusini erano caratterizzati da rituali segreti a cui erano ammessi solo gli iniziati e la loro fondazione sembra risalire almeno a 1500 anni prima di Cristo, molto prima quindi che i greci colonizzassero il sud Italia e le Eolie, portando con loro anche tradizioni e credenze religiose.

I misteri prevedevano rituali che permettevano agli iniziati di compartecipare alla dimensione divina cui si accedeva quasi sicuramente grazie alle sostanze contenute in una bevanda rituale chiama Kikeon.

La bevanda Ciceone forse conteneva sia papaveri da oppio, spesso raffigurati insieme alle spighe di grano come attributi di Demetra e della figlia Persefone, sia funghi psicotropi, come sembra sia rappresentato sul cosiddetto bassorilievo di Farsalo sul quale madre e figlia sono raffigurate intente nello scambiarsi funghi.

Le streghe di Alicudi molto probabilmente tramandano quindi un millenario sapere misterico o forse sono solo inconsapevoli visionarie capaci di influenzare la tradizione locale fino al punto da confondere reale e fantastico.



Il falso “Morbo di K” inventato dal medico Ossicini

Durante la seconda guerra mondiale, Adriano Ossicini medico all’ospedale Fatebenefratelli, sito sull’isola Tiberina e vicino al ghetto ebraico, insieme al primario Giovanni Borromeo inventò il morbo di K per salvare decine di ebrei romani dai rastrellamenti nazifascisti ed evitare che venissero inviati nei campi di sterminio.

Egli, insieme ai suoi colleghi, compilò false cartelle cliniche con il nome della malattia, a cui venne dato il nome dalle iniziali degli ufficiali nazisti Kesselring e Kappler, definendola “contagiosissima” in modo tale da scoraggiare i nazisti dal controllo dei nomi dei pazienti. I medici si riferivano a questi pazienti, come pazienti “Kesselring” per indicare i pazienti in fuga dai tedeschi.

Al morbo di K fu dedicato un reparto in cui furono ricoverati sotto falso nome ebrei e polacchi che restavano qualche giorno, fino a quando da una tipografia non arrivavano clandestinamente falsi documenti di identità che ne permettevano la fuga dopo essere stati dichiarati morti con il loro vero nome.

Il 16 ottobre 1943 le truppe tedesche della Gestapo entrarono nel ghetto e in altre zone della città per un rastrellamento che portò all’arresto di oltre mille persone, la maggior parte delle quali fu poi deportata ad Auschwitz. Una ventina riuscirono a fuggire trovando rifugio presso l’ospedale Fatebenefratelli.

Il dottor Borromeo, insieme a Ossicini e Sacerdoti, falsificano le cartelle cliniche segnando per tutti i fuggitivi la stessa diagnosi, il morbo di K. A seguito di un controllo da parte dei tedeschi vennero controllati tutti i degenti nell’ospedale e, per salvare i finti degenti del padiglione del morbo di K, Giorgio Borromeo, che parlava tedesco, spiegò ai soldati la pericolosità del morbo e quanto fosse contagioso e questo fece desistere i tedeschi dall’ispezionare il padiglione.

Ai degenti i medici dissero: “Dovete tossire, tossire continuamente perché questo li spaventa, non vogliono contrarre una pericolosa malattia e non entreranno” . I nazisti pensavano che si trattasse di cancro o tubercolosi e infatti la sindrome di K evocava la malattia di Koch, ossia la tubercolosi e pertanto i militari ne erano terrorizzati. 

Nell’ospedale lavorava, sotto falso nome, anche il medico Vittorio Emanuele Sacerdoti a cui, nonostante le leggi razziali, era stato dato un posto di praticante studente per segnalazione di suo zio, il noto fisiopatologo Marco Almagià di cui il primario del Fatebenefratelli, Giovanni Borromeo, era stato allievo.

È per questa presenza in ospedale che gli ebrei che sfuggirono al rastrellamento avevano pensato di rivolgersi all’ospedale per aiuto e infatti sia il primario sia i frati, non si opposero al ricovero permettendo di salvare, almeno per quel giorno, la loro vita.

Non erano stati però i primi ospiti segreti dell’Ospedale Fatebenefratelli. Dopo l’armistizio, a Roma, in certi ambienti, si alludeva già ad un gruppo di medici che, sull’Isola Tiberina, aiutava e prestava cure a partigiani, aviatori feriti e forse, anche agli ebrei.

Sembra siano stati circa 400 gli ebrei che furono ospitati, a più riprese, nell’adiacente convento di San Bartolomeo. Il priore Bialek, con Giovanni Borromeo, aveva anche istallato, negli scantinati dell’Ospedale, una radio ricetrasmittente clandestina che permetteva di tenere in contatto i partigiani laziali con Radio Londra.

Così mentre nei sotterranei una radio clandestina permetteva di comunicare con i partigiani, nell’ospedale trovavano rifugio anche molti altri romani, ma questo attivismo costò al medico ventottenne Ossicini la prigione e le violenze dei nazisti e dei fascisti.

La Fondazione internazionale Raoul Wallenberg, col patrocinio della Comunità ebraica di Roma e la Fondazione museo della Shoah, ha assegnato all’ospedale il titolo di “Casa di Vita” proprio in memoria del salvataggio di ebrei durante le persecuzioni naziste.

Nel 2007 il figlio di Giovanni Borromeo, Pietro Borromeo, ha pubblicato una storia della vicenda basata sulle sue memorie e su quelle attribuite al padre.

I Siculi dall’Emilia Romagna, Umbria e Marche si spostarono in Sicilia.

Sull’origine dei Siculi, già presenti in Sicilia quando nell’ VIII sec. a.C. vi giunsero i Greci, c’ è maggiore chiarezza a seguito delle ricerche dell’archeologo Alessandro Bonfanti, esperto di Preistoria indoeuropea.

Gli storici antichi hanno avuto spesso idee confuse sull’origine di questo popolo tanto da presentarlo a volte come ligure, altre come enotrio o italico oppure originario della Sicilia.

Le notizie sulle popolazioni siciliane dell’età del bronzo e della prima età del ferro, sono giunte sia da fonti che li riguardano, scritte nelle lingue originali greche e latine, sia anche dalle analisi linguistiche e antropologiche .

Sembra ora che i Siculi fossero una popolazione di stirpe indoeuropea e di ceppo illirico che, intorno al IV millennio a.C., erano un tutt’uno con altre genti illiriche stanziate nel centro dell’Europa, sopra il corso medio del Danubio.

Vivevano al confine con altri macro gruppi indoeuropei: a ovest con quelli da cui derivarono i proto-Latini cioè gli Osco-umbri e i Veneti , a est e sud-est con i precursori degli Elleni, dei Macedoni e dei Frigi e a nord con il gruppo celto-germanico.

Qualche correlazione i Siculi lo avevano anche con gruppi ”Altoeuropei” o ”Paleo-europei” e con ”Indoeuropei A” a cui appartenevano i Sicani, con i quali non avevano però alcun rapporto, in quanto separati dal Danubio che li divideva.

Tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C., i Siculi abbandonarono i territori centro-europei a causa delle pesanti carestie che ciclicamente colpivano quelle zone, attraversarono il Danubio nei pressi dell’attuale Ungheria meridionale, si riversarono nei Balcani e occuparono il Peloponneso.

L’emigrazione nella penisola italica avvenne poi a più riprese e così i Siculi si frammentarono in diverse tribù che presero il nome di “Ausoni”, “Liburni”, “Pelasgi”, “Enotri”, “Messapi”, “Dauni”, “Caoni” e sempre “Siculi” .

Prima giunsero gli Ausoni, intorno alla metà del III millennio a.C., e si stabilirono nell’Italia meridionale fino in Lazio, scacciandone i Sicani che, già scacciati dai Liguri secoli prima dal nord Italia, furono costretti a dirigersi verso la Sicilia. Ma anche gli Ausoni, esclusi quelli che si erano già integrati con i protolatini, subirono analoga sorte per mano degli Oschi.

Agli inizi del II millennio a.C. arrivarono in Italia anche i Siculi che si stabilirono tra l’Emilia Romagna, l’Umbria e le Marche. Da qui, costretti ad andarsene con la forza, si diressero prima nel Lazio, poi in Campania e infine si insediarono in Calabria presso gli Enotri, che erano loro diretti consanguinei.

Qualche tempo dopo, a causa di controversie insorte fra i due gruppi, i Siculi furono costretti a trasferirsi in Sicilia. Tucidide narrava che nell’anno 1270 a.C., i Siculi conquistarono con un grande esercito il settore orientale dell’isola dando vita alla Sikelía, la “terra dei Siculi”. Cacciarono così verso occidente i Sicani, il gruppo paleoeuropeo che vi si era insediato intorno al 2200 a.C. e che era già fuggito anch’esso dalla penisola italiana per l’arrivo degli Ausoni.

Quindi quasi tutte le popolazioni presenti nella Sicilia in quel periodo erano di origine indoeuropea e provenivano dalle stesse aree geografiche. A queste conclusioni hanno concorso anche le analisi antropologiche degli scheletri e soprattutto le analisi fonetiche. Questo è stato un lavoro arduo per la difficoltà di decifrazione dell’idioma degli Elimi e dei Sicani, anche perché in particolare questi ultimi non hanno lasciato testi scritti ma solo molti toponimi ed idronimi, cioè nomi di corsi d’acqua.

Pure gli Elimi infatti hanno origini illiriche, certamente con infiltrazioni acheo-troiane e anche sicane, in quanto la loro lingua è molto simile a quella degli illiri Siculi e la loro ceramica si presenta di impasto grigio-giallo, come quella dei Sicani e quella piumata dei Siculi, anche se cambia nelle fogge e nella simbologia decorativa. L’impianto linguistico e culturale e le loro caratteristiche fisiche erano quindi simili a quelli dei Siculi e delle popolazioni dello stesso ceppo.

Ganimede, la luna di Giove con un oceano salatissimo

Ganimede è una delle sette lune di Giove ed è il satellite più grande del Sistema Solare in quanto è maggiore di Mercurio e di Plutone ed è di poco più piccolo di Marte, anche se però ha solo la metà della sua massa. Quindi se orbitasse attorno al Sole, questa luna potrebbe essere classificata come un pianeta. L’età di Ganimede è stimata in circa 4,5 miliardi di anni, circa la stessa di Giove.

Orbita a una distanza di circa 1 070 400 km e impiega circa sette giorni terrestri ad effettuare una orbita completa. Questa luna è molto fredda poiché le temperature medie diurne sulla sua superficie sono comprese fra -112 e -182 gradi, mentre di notte scendono a -193 gradi. Sono state trovate prove di una sottile atmosfera di ossigeno insufficiente però a sostenere la vita e pertanto è improbabile che la superficie ospiti organismi viventi.

Ganimede è l’unico satellite del sistema solare ad avere una magnetosfera, che invece è presente in tutti i pianeti, e cioè una regione in cui vengono intrappolate o deviate le particelle cariche. In particolare la sua magnetosfera è interamente incorporata all’interno di quella di Giove.

Ganimede è stata scoperta da Galileo Galilei il 7 gennaio 1610 insieme ad altre tre lune di Giove e questo ritrovamento portò alla comprensione del fatto che i pianeti orbitano invece attorno al Sole.

Galileo battezzò questa luna Giove III o “terzo satellite di Giove” e solo a metà del 1800 fu ribattezzata Ganimede, divenendo così l’unico satellite ad essere intitolato ad una figura mitologica di sesso maschile. Nella mitologia greca Ganimede era un principe troiano che Zeus, travestito da aquila, rapì e condusse sull’Olimpo, dove divenne coppiere degli dei e amante dello stesso Zeus.

Probabilmente anche Ganimede ha un oceano sotto alla sua superficie ghiacciata, che potrebbe essere un luogo potenziale per la vita, che è più salato degli oceani della Terra e l’acqua potrebbe avere una profondità di 100 km. L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha in programma una missione sulle lune ghiacciate di Giove verso il 2030 e fra le osservate speciali ci sarà appunto Ganimede

Ganimede ha un nucleo di ferro, avvolto in uno strato di roccia che è sua volta ricoperto da una crosta di ghiaccio molto spessa. Sulla superficie ci sono anche serie di dossi, che potrebbero essere formazioni rocciose.

La superficie è costituita principalmente da due tipi di terreno: circa il 40 per cento è scuro con numerosi crateri, il 60 percento è di colore più chiaro con scarpate. Queste ultime sono probabilmente il risultato di un’attività tettonica e creano picchi alti fino a 600 metri che si estendono per chilometri.

In politica……

In politica presumiamo che tutti coloro i quali sanno conquistarsi i voti, sappiano anche amministrare uno Stato o una città. Quando siamo ammalati chiamiamo un medico provetto, che dia garanzia di una preparazione specifica e di competenza tecnica. Non ci fidiamo del medico più bello o più eloquente.
(Platone)

Il genio politico di Ciro II di Persia, detto il Grande

Ciro II di Persia, noto come Ciro il Grande (590 a.C – 530 a. C.) è stato un Imperatore persiano discendente di Ciro I di Persia, membro di quella stirpe dei Teispidi appartenente alla dinastia degli Achemenidi che aveva fondato nella Susiana un piccolo regno.

Figlio di Cambise, egli succedette al padre nel 558 a. C. e ben presto iniziò la sua opera di conquista territoriale. Salito al trono dominava infatti solo sui Pasargadi, Marafi e Maspi ma poco dopo aveva già riunito sotto il suo scettro tutte le dieci stirpi dalla cui fusione si riteneva uscito il popolo persiano e, fra queste, anche quella dei Dai che si trovava nell’orbita politica dei Medi.

Erodoto narrava come Ciro fosse sfuggito alla morte cui lo voleva condannare il nonno Astiage re dei Medi, che era il padre di sua madre Mandane. Astiage informato infatti da una visione che suo nipote gli avrebbe usurpato il trono, affidò il compito di ucciderlo al fidato Arpago.

Questi a sua volta lo delegò con l’inganno al bovaro Mitradate che, informato dell’identità del neonato, portò a casa il bambino e lo sostituì con il figlio appena partorito morto da sua moglie.

Anni dopo Ciro, nominato capo dei giovani del villaggio, a causa di un gioco si mise in contrasto col figlio di Artembare, dignitario persiano, e venne condotto di fronte al re Astiage il quale notò la loro rassomiglianza e comprese che l’omicidio di suo nipote non era stato compiuto.

Astiage allora uccise il figlio di Arpago e ne fece mangiare di nascosto le carni al padre durante un banchetto: solo mani, testa e piedi furono sepolti. Ritenendo che formalmente Ciro era già stato re, Astiage, mal consigliato dai Magi, non sentendosi più in pericolo inviò Ciro dai suoi genitori naturali.

L’assalto di Ciro alla Media avvenne poi mentre Astiage, in guerra con i Babilonesi, era impegnato nell’assedio della città di Kharrān. Egli, ritornato in patria per difendere il proprio regno, respinse gli invasori e portò la guerra nel territorio persiano. Ma nel 550 a. C. , dopo tre anni di strenua difesa, il suo esercito fu battuto da Ciro ed egli fu fatto prigioniero dai suoi stessi soldati e consegnato al nemico.

Impadronitosi della capitale Ecbatana, Ciro usò molta clemenza verso i Medi e verso il nonno Astiage e, alla sua morte, ne sposò la vedova Amiti legittimando così il proprio dominio. Quando Ciro appare nelle iscrizioni con il titolo di re di Persia, la Media fa già parte dell’impero persiano.

Sicuro che, sotto il regno di Nabonide non avrebbe avuto noie da parte babilonese, Ciro si accinse a conquistare anche il potente regno di Lidia tanto più che il re Creso, preoccupato dal minaccioso progredire della potenza persiana, aveva già preso l’iniziativa invadendo la Cappadocia.

Creso aveva l’aiuto degli Egiziani e dei Babilonesi ma, nel 546 a. C., Ciro prevenne la coalizione irrompendo con un esercito nella Cappadocia. Dopo un primo scontro rimasto indeciso presso Pteria, Ciro con tutte le sue armate mosse contro Sardi, capitale della Lidia, all’interno della quale Creso si era asserragliato.

Creso, abbandonato dai Babilonesi che avevano fatto pace separata con i Persiani, attendeva l’aiuto di Sparta e Egitto, suoi alleati. Gli Spartani avevano preparato una flotta ma, sul punto di prendere il mare, seppero che Sardi era caduta, secondo Erodoto per la casuale scoperta d’un sentiero nascosto, e che Creso era nelle mani del vincitore. Fonti greche attestano unanimi che egli si mostrò mite col vinto.

Appresa la caduta di Sardi, le città greche dell’Asia Minore avevano inviato a Ciro ambasciatori per dichiarargli che accettavano la sua supremazia alle stesse condizioni che avevano con Creso. Ma Ciro richiese completa sottomissione, fatta eccezione per Mileto a cui concesse di conservare la posizione precedente, e affidò ai suoi generali il compito di costringere gli Ioni all’obbedienza. In seguito anche la Caria e la Licia furono sottomesse.

Ciro estese poi il suo dominio sulle provincie orientali dell’Irān, sottomettendo la Margiana e la Sogdiana e raggiungendo il fiume Iaxarte, nei cui pressi fece costruire fortezze che erano in piedi ancora ai tempi di Alessandro Magno.

La sua azione, che durò dal 546 sino al 540 a. C., assicurò all’impero persiano le provincie orientali di Parthiana, Drangiana, Ariana, Khōrasm, Battriana, Sogdiana, Gandāra, i Saci, i Sattagidi, Arachosia e Maka.

In seguito alle conquiste occidentali l’impero persiano confinava ormai dal golfo arabico sino alla Cilicia con il regno di Babilonia. Ciro, favorito dal dissidio che esisteva fra il re Nabonide e i sacerdoti, poté facilmente nel 522 a. C., impadronirsi anche di Babilonia tramite il suo generale Gobria.

Anche qui Ciro si comportò come un quasi legittimo erede della dinastia locale in quanto i templi furono protetti, alle singole città furono restituite le divinità che Nabonide aveva fatto trasportare a Babilonia e permise il ritorno in Palestina ai Giudei che erano stati lì deportati .

In tal modo, con una serie di fortunate conquiste, Ciro gettò saldamente le basi di uno dei più vasti imperi che la storia ricordi. Più che la sua abilità militare, gli valse il genio politico per cui egli seppe cogliere sempre il momento giusto per l’azione e seppe apparire come un liberatore ai popoli che conquistava.

La sua morte, avvenuta nel 528 a. C., con ogni probabilità in combattimento contro popolazioni dimoranti oltre lo Iaxarte, i Massageti secondo Erodoto, lasciava la Persia trasformata nel più forte impero esistente, temibile minaccia ai margini del mondo greco.