Il galeone sostituì la caravella e la caracca

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Il galeone nacque nel XVI secolo, presumibilmente con origine iberica, come evoluzione della caravella e della caracca ed univa la grande maneggevolezza a doti di robustezza necessarie alla navigazione oceanica.

Un galeone poteva misurare mediamente 40 – 42 m per una larghezza di una decina di metri ed aveva in genere l’albero di trinchetto con tre vele quadre (vela di trinchetto, parrocchetto e velaccio di trinchetto), l’albero di maestra con tre vele quadre (di maestra, di gabbia e velaccio di maestra e a volte il controvelaccio) e l’albero di mezzana (con la vela latina e la vela di mezzana).

Le modifiche principali erano costituite da un castello di prua più basso, un castello di poppa di forma squadrata e uno scafo allungato, quest’ultima innovazione apportava una maggiore stabilità in acqua allo scafo e ne diminuiva la resistenza al vento. Questo vascello era quindi più veloce e manovrabile dei tipi precedenti e anche più economico: con il costo della realizzazione di 3 caracche si potevano realizzare 5 galeoni.

Fu realizzato anche un nuovo sistema di manovre che permetteva di governare la nave anche con un equipaggio ridotto in quanto per i lunghi periodi passati in mare e le scarse condizioni di igiene e sicurezza esistenti molti membri dell’equipaggio morivano durante la navigazione. L’equipaggio mangiava e dormiva sui ponti di batteria mentre gli ufficiali alloggiavano a poppa.

La flotta inglese, francese e spagnola, ma anche Svezia, Danimarca, le Province Unite e Lubecca impiegarono il galeone come unità da combattimento principale. L’arma principale del galeone era la colubrina, chiamata anche cannone a mano. JbVi erano una ventina di pezzi sul ponte di coperta e una seconda batteria di semicolubrine. La parte elevata, cioè il cassero ed il castello, potevano avere pezzi minori anche orientabili.

Le potenze iberiche ebbero un certo conservatorismo costruttivo, mentre le potenze baltiche e del mare del nord tentarono di evolverne il modello per un nuovo sviluppo del galeone come nave da guerra pensata per combattimenti d’artiglieria e non più come nave oceanica, mercantile e militare al contempo,  pensata per l’abbordaggio  e capace di operare con l’artiglieria.

Fino agli anni ’60 del ‘500 la Spagna non disponeva di una marina militare fuori dal Mediterraneo e faceva affidamento proprio sulla marina mercantile basata su unità che, per avere sgravi fiscali o per poter accedere al commercio con alcuni porti, dovevano rispettare alcune caratteristiche che le rendevano facili da trasformare in unità militari.

Negli stessi anni, in Francia e in Inghilterra, si fabbricarono numerosi galeoni privati specificatamente pensati per la guerra di corsa, cioè corsara contro i traffici in genere spagnoli o delle potenze cattoliche. Spesso alla costruzione si preferiva la cattura delle navi avversarie che venivano poi immesse nella flotta della potenza che le aveva prese.

Per costruire i galeoni venivano usati diversi tipi di legno: la quercia per lo scafo, il pino marittimo per l’alberatura, mentre per i ponti e le sovrastrutture venivano scelti diversi legni duri. Verso la metà del XVII secolo, per far fronte alle nuove esigenze della guerra sul mare, il galeone evolse nel vascello di linea.

Ettore Majorana il genio scomparso

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Dal 26 marzo 1938 Ettore Majorana, promettente fisico anche se non aveva compiuto 32 anni, era imbarcato su un piroscafo che viaggiava da Palermo a Napoli e  scomparve misteriosamente facendo perdere le proprie tracce. Nato a Catania nel 1906 faceva parte dei “ragazzi di via Panisperna”, via in cui vi era la sede  del Regio Istituto di fisica dell’Università di Roma, dove si riuniva il gruppo di fisici guidati da Enrico Fermi.

Dietro a questa mistreiosa scomparsa, che era stata preceduta dall’invio da parte di Majorana di alcune lettere ai suoi familiari che facevano pensare ad una sua volontà suicidiaria, sono state fatte molte congetture.

Sono stati immaginati intrighi politici compiuti dai Servizi segreti di qualche Paese straniero, una sua volontaria fuga in Argentina insieme ai Gerarchi fascisti al termine della seconda guerra mondiale e anche il dilemma etico dell’uomo che conosceva il potenziale distruttivo dell’energia atomica.

Majorana fu infatti uno dei primi scienziati ad intuire le reazioni nucleari, fondamentali per la realizzazione della bomba atomica. Nel 1937 aveva accettato la cattedra di Fisica all’Università di Napoli dopo aver rifiutato quelle di Cambridge e Yale.

Fu oggetto di presunti avvistamenti negli anni seguenti, in Sicilia e in Venezuela e e nel 2016 alcuni giornalisti pubblicarono un libro a sostegno dell’ipotesi che lo scienziato fosse vissuto sotto la falsa identità del Signor Bini in Argentina e Venezuela.

Nello stesso anno Stefano Roncorosi, discendente di Majorana, affermò in un saggio che il fisico morì invece in Italia poco dopo la scomparsa volontaria che avvenne a seguito di dissidi avuti con la famiglia a causa della sua omosessualità.

I minatori, i canarini e i cardellini

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Le prime miniere di carbone non avevano sistemi di ventilazione e neanche sistemi di allarme. I minatori allora portavano nei nuovi antri delle miniere un cardellino o un canarino dentro una gabbietta perchè questi piccoli uccelli sono particolarmente sensibili al metano e al monossido di carbone, e quindi erano perfetti per rivelare la presenza di gas pericolosi.

Quando la concentrazione di questi vapori nocivi superava il livello di guardia, gli uccellini morivano rapidamente mentre spesso, invece, i minatori così allertati avevano il tempo di salvarsi e di uscire all’aria aperta. Fino a che sentivano il loro canto i minatori potevano quindi esser sicuri che l’aria fosse sicura mentre invece la loro morte segnalava invece la necessità di una immediata evacuazione.

Questa usanza, che purtroppo si basava sul sacrificio di questi poveri animaletti, fu con il tempo abbandonata perchè gli uccelli furono sostituiti dall’installazione di  sistemi di allarme che però, a volte, si sono rivelati meno efficaci.

Alce Nero lo sciamano cattolico

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Lo Sioux Alce Nero nacque nel 1863 e a 12 anni partecipo’ alla battaglia di Little Bighorn in cui i pellerossa, guidati da Toro Seduto e da suo cugino Cavallo Pazzo, sterminarono 268 soldati del reggimento Settimo Cavalleggeri comandato dal colonnello George Custer.

Nel 1890 pero’ anche l’esercito americano massacro’ 350 Sioux in grande parte donne e bambini inermi. Alce Nero che era ritornato dal tour europeo del Wild West Show, circo itinerante di Buffalo Bill, rimase ferito in questa battaglia e fu rinchiuso in una riserva nel Sud Dakota.

Alce Nero era un uomo di medicina e grande sciamano e gia’ a 9 anni aveva incontrato in una grande visione il Grande Spirito che guida l’Universo. Nella riserva si prodigo’ per imporre la convivenza pacifica tra la spiritualita’ tradizionale dei pellerossa e la fede cattolica insegnata dai missionari gesuiti.

Nel 1903 battezzo’ i figli, si fece battezzare e prese servizio come catechista senza rinunciare alla sua missione di sciamano. Nel 1950, alla sua morte, fu sepolto in un cimitero cattolico e oggi la Chiesa cattolica vorrebbe beatificarlo.

La bisnipote Charlotte, attivista per i diritti degli Sioux, è però assolutamente contraria e asserisce che membri della loro famiglia raccontavano che quando i missionari cercavano di battezzarlo Alce Nero corresse a nascondersi sotto al letto.

 

Paolina Bonaparte ” Venere vincitrice”

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Maria Paola Buonaparte, conosciuta  come Paolina Bonaparte, fu sorella di Napoleone Bonaparte e nacque ad Ajaccio, in Corsica, nel 1780 in un periodo piuttosto complicato perchè l’isola era attraversata dalle lotte clandestine tra autonomisti e realisti. Nel 1793 alcuni patrioti corsi appiccano fuoco alla residenza dei Bonaparte che furono costretti a rifugiarsi a Marsiglia

Paolina era una donna di grande bellezza e fascino. Molto irrequieta e amante dello sfarzo e della vita di corte, fece molto scandalo a causa del suo comportamento anticonformista e delle ripetute infedeltà coniugali.

Napoleone impose a Paolina di interrompere la sua relazione con Stanilas Fréron di cui lei era perdutamente innamorata, anche dopo aver scoperto che l’uomo era già sposato e padre di tre figli, e la convinse a sposare il suo generale Victor Emanuel Leclerc.

Paolina seguì il marito in tutti gli spostamenti di lavoro e si stabilì a Milano, a Parigi e poi andò fino a Santo Domingo, dove però lui morì di colera nel 1802. Insieme al figlio Dermide, avuto nel 1797 dal marito, ritornò quindi a Parigi dove però mostrò grande insofferenza per le regole e le limitazioni imposte dalla vedovanza.

Con l’appoggio anche del fratello Giuseppe, sposò il principe Camillo Borghese, la cui famiglia faceva parte dell’antica nobiltà romana, che era di cinque anni più anziano di lei. Il matrimonio si svolse segretamente, in quanto avvenuto prima del termine del normale periodo di vedovanza e per questo fece infuriare Napoleone.

Nel 1803 Paolina giunse con il marito a Roma dove non si trovò affatto bene perchè  trovò lo sfarzo della nobiltà romana ma anche un grande perbenismo e uno stile di vita pieno di impegni religiosi. Napoleone però ripetutamente le negò il permesso di rientrare in Francia dove si recò solo in occasione dell’incoronazione imperiale sostenendo in modo egregio il suo ruolo di membro della famiglia Bonaparte.

Ebbe un pessimo rapporto, costellato di disprezzo e invidia reciproca, con la cognata Giuseppina di Beauharnais moglie di Napoleone. Giuseppina non poteva avere figli e Paolina suggeriva al fratello anche di chiedere il divorzio, in particolare dopo l’incoronazione, per perpetuare la dinastia. Giuseppina, da parte sua, arrivò a spargere la voce di rapporti incestuosi tra la principessa Borghese e il fratello Napoleone.

Nel 1804 morì suo figlio Dermide a causa della cagionevole salute mentre ella si trovava alle terme di Bagni di Lucca e lo aveva lasciato a Frascati vicino al fratello Luciano.

Nel 1806 Paolina ebbe il titolo di Duchessa di Guastalla ma si interessò molto poco  alla vita politica, a differenza delle sue due sorelle che invece parteciparono attivamente,  occupandosi più di questioni femminili e galanti.

Dopo l’incoronazione di Napoleone come Imperatore, nel 1808 a Camillo Borghese fu affidata la giurisdizione di Torino e delle zone circostanti. Anche a Torino Paolina non si trovò bene perchè trovò la città fredda e bigotta e quindi, anche perchè insofferente al legame matrimoniale, lasciò definitivamente  l’Italia e visse fra la sua casa di Neully vicino Parigi e Nizza.

La statua scolpita daAntonio Canova che la ritrasse nuda come una Venere vincitrice accrebbe la sua fama di donna scandalosa. A chi chi le chiese, come fosse andata l’esperienza, lei rispose:

Tutto bene, l’ambiente era ben riscaldato“.

L’elenco dei suoi amanti divenne sempre più lungo e comprese il conte di Fourbin, il musicista Blangini, l’ufficiale Jules de Canouville e il grande attore francese Talma.

Paolina però dimostrò molta fermezza ed ostinazione nel sostenere e aiutare Napoleone nei momenti di pericolo e di difficoltà condividendone l’esilio sull’isola d’Elba e cercando, inutilmente, di raggiungerlo anche a Sant’Elena.

La separazione da Camillo Borghese durò quasi 10 anni durante i quali lei si spostò per tutta Europa mentre lui si stabilì a Firenze con la sua amante e cugina, la Duchessa Livia Lante della Rovere.

Paolina nel 1824 si riavvicinò al marito che, a seguito della mediazione dei cardinali Albani e Consalvi, le consentì di vivere a Villa Sciarra, ribattezzata villa Paolina. Camillo, nonostante fosse uscito vincitore da un procedimento di annullamento del matrimonio presso la Sacra Rota, la ospitò nel suo palazzo solamente perché gravemente malata di cancro al fegato.

Fece lunghi periodi di cura in Toscana, ai bagni di Lucca e Pisa, dove andava in compagnia del musicista Giovanni Pacini che fu l’ultimo dei suoi amanti e trascorse gli ultimi mesi di vita nel palazzo fiorentino, oggi chiamato Villa Fabbricotti. Morì il 9 giugno 1825 all’età di 44 anni e, secondo le sue volontà, fu sepolta nella cappella dei Borghese a Roma nella Chiesa di Santa Maria Maggiore.

 

 

La febbre, il calore che guarisce

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La parte del cervello che regola la temperatura corporea dell’uomo si chiama ipotalamo e, per essere in  perfetta salute, l’uomo ha necessità che la temperatura si mantenga a circa 36,5/37°C.

Quando una persona è colpita da una malattia, come per esempio l’influenza o un forte raffreddore, il suo sistema immunitario entra in azione e prova a sconfiggere l’infezione con un aumento della temperatura. Questo perché il calore uccide o rende inattivi virus o batteri.

Ovviamente però appena il corpo si scalda viene la febbre.  Quando la temperatura supera i 40,5 °C,  la febbre prende il nome di iperpiressia che indica la presenza di malattie infettive o di intossicazioni.

Di solito la persona che ha la febbre alta ha anche brividi, con sensazione di freddo, che in realtà sono degli spasmi involontari dei muscoli e non, come  invece di solito si pensa, il tentativo del nostro corpo di combattere appunto il freddo. Ciò dipende dal fatto che l’ipotalamo definisce quale sia la temperatura necessaria e corretta  per combattere lo specifico malanno che ha aggredito la persona.

Se, per esempio, l’ipotalamo ritiene che per combattere l’influenza servano 39 °C e la febbre ha alzato la temperatura solo a 38, un brivido fa contrarre i muscoli per produrre calore, in modo che la temperatura salga ancora un po’. Poi, quando il corpo ha raggiunto la temperatura febbrile prevista, la sensazione di freddo passa.

Dato che la maggior parte dei microbi patogeni viene uccisa ad una temperatura prossima ai 40° C, la febbre rappresenta una preziosa difesa per il nostro organismo.  L’ipotalamo riesce ad aumentare la temperatura corporea controllando le funzioni di molti organi e tessuti.

Spesso, la febbre compare oppure aumenta nel tardo pomeriggio, cioè quando si attiva la funzione corporea che gestisce il sistema immunitario perché fanno parte del sistema immunitario delle cellule, chiamate cellule killer, che sono specializzate per l’eliminazione di virus e batteri.

I globuli rossi del sangue trasportano il ferro e la febbre attiva anche delle proteine che tolgono il ferro dal sangue perché i batteri non si moltiplicano se manca loro il ferro. Naturalmente dopo la guarnigione  il ferro ritorna a circolare nel sangue. Le proteine sono elementi chimici essenziali di tutti gli organismi viventi.
La febbre produce anche una sensazione di stanchezza, di spossatezza e toglie l’appetito affinché gli ammalati si convincano a riposare e a non non sprecare energia che serve al corpo per combattere al meglio l’infezione.
Il corpo umano per aumentare la quantità di calore prodotto oltre che all’ aumento del tono muscolare che provoca i brividi, ricorre anche alla vasocostrizione che provoca la riduzione del flusso ematico cutaneo,  all’aumento della frequenza cardiaca che provoca tachicardia e all’aumento del metabolismo basale che provoca dispendio energetico.

In sostanza l’aumento della temperatura  genera sia la riduzione della proliferazione dei microrganismi patogeni sia  un sensibile incremento dell’attività delle cellule con funzione immunitaria. Un  incremento di mezzo grado rispetto ai valori normali è già sufficiente ad aumentare considerevolmente la risposta dei linfociti B e T contro i microrganismi patogeni.

Test Hpv nuovo strumento di prevenzione oncologica

 

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Il piano nazionale sanitario della prevenzione prevede che entro il 2018 tra i programmi di screening rivolti a tutta la popolazione femminile sia inserito il test Hpv.

Questo esame diventera’ primario, sostituendo cosi’ il Pap-test,  per le donne a partire dai 30/35 anni di eta’ in su e dovra’ essere ripetuto ogni 5 anni.

L’ indagine si effettua su una piccola quantita’ di cellule prelevate dal collo uterino per verificare la presenza di alcuni tipi di un agente virale, chiamato Papillomavirus umano, che sono responsabili dello sviluppo del cancro alla cervice uterina.  Se questo test risulta positivo allora successivamente verra’ eseguito anche un Pap-test e poi anche una eventuale colposcopia.

Le donne sotto ai 30/35 anni dovranno invece eseguire il vecchio Pap-test ogni 3 anni perché, anche se nelle donne piu’ giovani le infezioni da Hpv sono assai frequenti , si è scoperto che nella maggior parte dei casi regrediscono da sole.

Le stelle pulsar e i fasci luminosi

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Le Pulsar, come i buchi neri, si formano in una delle fasi finali dell’evoluzione stellare. Le stelle originariamente grandi almeno una decina di volte il sole, esaurito l’idrogeno, collassano sotto il proprio peso e quindi avviene una esplosione di supernova.
Del nucleo centrale resta un corpo ultra denso e queste stelle diventano costituite essenzialmente da neutroni formando una struttura rigida di grandissima densità che emette fasci di radiazioni perché il suo asse di rotazione e il suo asse magnetico non sono allineati.
Più denso di una stella di neutroni c’è solo il buco nero, un oggetto con una gravità tale che impedisce ogni osservazione perché anche la luce resta intrappolata sulla sua superficie.
Le Pulsar sono quindi il punto di arrivo di stelle di grande massa composte da neutroni con un densissimo nucleo in quanto racchiudono una volta e mezzo la massa del sole in una sfera di appena 20km di diametro.
Le Pulsar vengono chiamate così perché dalla Terra si vedono “pulsare” nel cielo, anche se questo è un fenomeno dovuto alla nostra prospettiva di osservazione lontana, come se ci trovassimo davanti a un faro di cui vediamo la luce a intervalli regolari anche se la luce è di fatto continuativa nel tempo.
Pur contenendo più materia del Sole, hanno quindi un corpo piccolissimo e al loro interno la pressione molto elevata spinge gli elettroni contro i protoni fino a formare neutroni.
Producono inoltre intensi campi magnetici e ruotano su se stesse fino a 100 volte al secondo generando impulsi radio che attraversano il cielo e appaiono come fasci luminosi.
La prima Pulsar fu osservata nel 1967 da una studentessa di astronomia di nome Jocelyn Bell  anche se il merito fu attribuito soprattutto al professore Antony Hewish insignito del premio Nobel  per la Fisica nel 1974.

 

 

Il Valhalla l’aldilà dei guerrieri vichinghi

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Nel rito funebre un grande guerriero morto era posto con il cavallo e le armi su una barca che veniva incendiata e spinta al largo per rappresentare il lungo viaggio verso il Valhalla. I parenti mettevano nella barca pesce secco, latte di capra, frutta,  vino e i cadaveri del cavallo e di uno schiavo, sacrificato e a volte decapitato, di proprietà del   defunto.

Nella mitologia norrena chi muore da eroe in battaglia viene scortato dalle Valchirie nel Valhalla che è un’enorme sala con 540 porte, muri fatti con le lance dei guerrieri più valorosi, tetto fatto di scudi di oro su cui sono raffigurate scene di guerra e panche ricoperte di armature, gli arredi interni costituiti da vesti dei combattenti.

I guerrieri nel Valhalla assisteranno il dio Odino nello  scontro finale contro i Giganti. Per prepararsi alla lotta ogni giorno combattono organizzando giostre cavalleresche e ogni sera le ferite si rimarginano e i guerrieri ritornano nel Valhalla per banchettare con carne di cinghiale e bere idromele oltre alle coppe di birra distribuite dalle Valchirie, mentre Odino la suprema divinità si nutre solo di un vino speciale.

Ogni guerriero che si accingeva alla battaglia recitava sempre questa preghiera:

Guarda, laggiù vedo mio Padre.
Guarda, laggiù vedo mia madre,
e le mie sorelle, ed i miei fratelli.
Guarda, laggiù vedo la mia linea di sangue,
guarda, mi chiamano.
Mi chiedono di prendere il mio posto tra di loro,
tra le mura del Valhalla!
Dove i coraggiosi possono vivere
in Eterno!