Elena del Montenegro regina d’Italia e Rosa d’oro della Cristianità

Elena Savoia, la regina torna in Italia: la salma riportata al Santuario di  Vicoforte - Corriere.it

Elena del Montenegro, nata Jelena Petrović-Njegoš nel 1873 a Cettigne all’epoca capitale del Principato di Montenegro, era figlia del futuro re del Montenegro Nicola I. Riservata, caparbia, sensibile, attaccata alle tradizioni e amante della natura e dei ciclamini, ella crebbe conversando a tavola in francese e discutendo con disinvoltura di politica ma anche di poesia e di arte. Studiò a Pietroburgo dove frequentò la casa reale russa e collaborò con una rivista letteraria russa pubblicando poesie.

In Italia la regina Margherita aiutata da Francesco Crispi, di origini albanesi e desideroso di una maggiore influenza dell’Italia nei Balcani, fece incontrare il suo unico figlio e futuro re Vittorio Emanuele III ed Elena al teatro La Fenice di Venezia in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte.

L’erede al trono d’Italia, figlio di cugini primi, non avrebbe potuto generare un erede sano con una sposa vicina a lui per albero genealogico e grazie al matrimonio con Elena, alta 1.80 cm., ebbe come erede Umberto II che era in salute e anche molto più alto del padre che misurava solo 153 cm.

Il 21 ottobre 1896 Elena, di religione ortodossa, e Vittorio Emanuele sbarcarono a Bari dove ella, nella Basilica di S.Nicola, prima abiurò il credo ortodosso e subito dopo si convertì alla fede cattolica. Il matrimonio fu celebrato il 24 ottobre 1896, la cerimonia civile avvenne al Quirinale e quella religiosa nella Basilica romana Santa Maria degli Angeli senza la presenza della madre della sposa perché ortodossa osservante.

Elena indossava in capo un velo intessuto di fili d’argento che disegnavano migliaia di margherite e il corteo era composto da sei berline di gran gala, alcune tirate da sei cavalli bai, precedute da corazzieri ma, a causa della sconfitta di Adua, i festeggiamenti non furono sfarzosi e non furono invitati reali stranieri. Gli sposi si recarono poi in viaggio di nozze con il panfilo Jela (Elena in lingua montenegrina) sull’isola di Montecristo. In occasione delle nozze la famosa bevanda alcolica amaro Montenegro, venne così chiamato in onore della Regina.

Elena fu una regina attenta ai bisogni del popolo ma discreta nelle questioni politiche anche se fece da traduttrice al marito per il russo, il serbo e il greco moderno e tenne in ordine la sua emeroteca dei giornali stranieri. Dal loro matrimonio nacquero quattro figlie, Iolanda, Mafalda, Giovanna e Francesca ed il figlio Umberto ( 1904 -1983) che fu l’ultimo re d’Italia.

Quando il 28 dicembre 1908 avvenne il terribile terremoto che distrusse Reggio Calabria e Messina, la regina Elena si dedicò subito ai soccorsi e diventò molto popolare. Studiò medicina e ne ebbe la laurea honoris causa, finanziò opere benefiche a favore degli encefalitici, per madri povere, per i ubercolotici, per gli ex combattenti. Promosse inoltre iniziative per la formazione e l’aggiornamento professionale dei medici e degli operatori sanitari, per la ricerca contro la poliomelite, per la malattia di Parkinson e soprattutto contro il cancro tanto che il Papa Pio XI nel 1937 le conferì l’onoreficienza della Rosa d’oro della Cristianità.

L’11 agosto 1900, in seguito all’assassinio del padre, Vittorio Emanuele salì improvvisamente al trono ed Elena divenne Regina d’Italia e poi, con l’avvento dell’Impero, anche Regina d’Albania e Imperatrice d’Etiopia. Durante la prima guerra mondiale ella fece l’infermiera a tempo pieno e trasformò in ospedali sia il Quirinale, dove risiedeva, sia Villa Margherita, per reperire fondi inventò la “fotografia autografata” che veniva venduta nei banchi di beneficenza e poi, alla fine del conflitto, propose la vendita dei tesori della corona per estinguere i debiti di guerra.

Per scongiurare il secondo conflitto nel 1939 la regina scrisse una lettera alle sovrane delle sei nazioni europee ancora neutrali anche se poi ella stessa fu al fianco del marito quando questi dichiarò l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. La Regina scrisse nelle sue memorie di essere stata presente il 25 luglio a Villa Ada quando Vittorio Emanuele fece arrestare Mussolini, atto che ritenne fosse indegno per un sovrano.

Il 9 settembre del 1943 seguì il marito a Brindisi dove il re si rifugiò dopo l’armistizio con gli Alleati che la Monarchia aveva segretamente firmato il 3 settembre per porre fine alla guerra.Il 23 settembre la figlia Mafalda venne arrestata dai nazisti e portata nel lager di Buchenwald, dove morì nel 1944.

Finita la guerra, i reali andarono in esilio il 9 maggio 1946, dopo che Vittorio Emanuele III ebbe abdicato a favore del figlio Umberto assumendo il titolo di Conte di Pollenzo. Si ritirarono a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ospiti di re Farouk I, dove festeggiarono il cinquantesimo anniversario di matrimonio e dove rimasero fino alla morte di Vittorio Emanuele nel 1947.

Tre anni dopo Elena si scoprì malata di cancro e si trasferì a Montpellier in Francia dove morì nel novembre 1952 dopo essersi sottoposta a un difficile intervento chirurgico. Fu sepolta, come suo desiderio, in una comune tomba mentre l’intera città si fermò per partecipare al suo funerale.

Sessantacinque anni dopo la sua morte, il 15 dicembre 2017, la salma della regina è stata rimpatriata e sepolta in Piemonte nel santuario di Vicoforte dove, due giorni dopo, sono stati tumulati anche i resti del consorte Vittorio Emanuele III rimpatriati da Alessandria d’Egitto.

La regina Elena è tra le personalità di Casa Savoia ricordate in modo positivo dall’opinione pubblica, anche dopo l’avvento della Repubblica, per la sua vicinanza ai malati e per la sua grandissima umanità. La sua figura ha colpito anche l’immaginario di scrittori e poeti come Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana, Giovanni Pascoli, Gabriele d’Annunzio ed Ada Negri. Giacomo Puccini le dedicò l’opera Madama Butterfly.

Nel 1909 al suo nome venne intitolato a Milano un reparto ostetrico inizialmente chiamato Asilo Regina Elena, oggi diventato l’Istituto di Ostetricia-Ginecologia e Pediatria Regina Elena ed incluso nella fondazione dell’Ospedale Maggiore di Milano.

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Il grande terremoto del 1923 ed il prossimo terremoto a Tokyo

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In Giappone il 1° settembre 1923 avvenne un grande terremoto, di magnitudo 7.9, che distrusse migliaia di edifici e provocò la morte di almeno 100 mila persone nell’area di Tokyo. Oggi gli esperti ritengono che vi sia il 70 % di possibilità che un altro terremoto, almeno di magnitudo 7, possa nuovamente interessare gli stessi luoghi entro il 2050.

Secondo le stime ufficiali, una scossa di magnitudo 7.3 nella parte settentrionale della Baia di Tokyo potrebbe causare la morte di almeno 9.700 persone e il ferimento di altre 150mila . Potrebbe causare inoltre fino a 3,4 milioni di sfollati da subito e altri 5 milioni nei giorni seguenti, la distruzione di più di 300 mila edifici, cedimenti strutturali di strade e ponti e incendi nelle zone di Tokyo dove si vive ancora in edifici piccoli, spesso costruiti in legno.

In città , per affrontare il futuro terremoto, i grattacieli sono progettati per essere elastici e assorbire le oscillazioni causate dalle scosse, i piani di emergenza ed evacuazione sono periodicamente testati e migliorati, a scuola s’insegna come sopravvivere a una scossa e gli abitanti sono spinti a tenere sempre in casa razioni di cibo in scatola, bottiglie e taniche d’acqua per le emergenze.

Naturalmente la gestione di un’emergenza su una scala così grande, poichè l’area metropolitana è popolata da 38 milioni di persone e la città in senso stretto ne conta 14 milioni, sarebbe comunque complessa anche per la presenza degli stranieri e speciali applicazioni per gli smartphone in più lingue sono già disponibili da tempo e promosse tra i turisti per renderli più consapevoli dei rischi e più informati sulle pratiche da attuare in situazioni critiche.

Per gli abitanti sono utilizzati numerosi canali di comunicazione con campagne online, sui mezzi di trasporto, sui posti di lavoro e nelle scuole tanto che nelle case persino i mobili di medie e grandi dimensioni vengono assicurati ai muri, con staffe a “L”, vengono bloccate le ante degli armadietti e sono applicati alle gambe dei tavoli e delle sedie degli antiscivolo.

Viene consigliato anche agli edochiani, Edo era l’antico villaggio dal quale si sviluppò Tokyo, di tenere una scorta di medicinali, una radiolina, batterie e farmaci da banco e nei negozi si trovano anche sacche da inserire all’interno dei sanitari per continuare a utilizzarli anche nel caso di mancanza d’acqua, sigillando gli escrementi al loro interno.

La Metropolitana di Tokyo ha reso antisismica buona parte delle sue infrastrutture e, in caso di terremoto, il sistema di gestione dell’intera rete è programmato per sospendere il viaggio di tutti i treni, avvisando prima i passeggeri di reggersi ai sostegni.

Già nel 2011quando avvenne un terremoto di magnitudo 9 al largo della costa orientale del Giappone, che causò un grande tsunami e grandi scosse anche a Tokyo, in pochi istanti l’intera rete della metropolitana sospese il servizio o rallentò la corsa dei treni, per precauzione. Su scala nazionale furono subito arrestate anche le linee ferroviarie ad alta velocità, che poi ripresero a trasportare passeggeri a velocità ridotte.

Il documento più conosciuto dai cittadini è un manuale di oltre 300 pagine che offre consigli di ogni tipo su come affrontare un terremoto con illustrazioni molto semplici e istruzioni comprensibili anche a chi ha un basso livello di istruzione.

Quando ci sarà un nuovo grande terremoto, tremila edifici pubblici saranno trasformati in centri di accoglienza per le persone che avranno perso la casa e per i milioni di pendolari, che lavorano nelle zone centrali della città, per non ostacolare il lavoro dei soccorritori. Anche alle attività commerciali viene chiesto di avere sempre riserve di acqua potabile e di cibo per almeno tre giorni per i loro dipendenti.

A Tokyo 50 parchi e aree verdi della città sono già già equipaggiati con sistemi fognari aggiuntivi e depositi, in modo da potere ospitare tendopoli per i primi giorni dell’emergenza e le panchine, per esempio, possono essere convertite in stufe e griglie per cuocere il cibo. L’obiettivo, a Tokyo, sarebbe quello di riuscire a ripristinare la fornitura di corrente elettrica entro una settimana, la fornitura d’acqua entro un mese e quella del gas entro un paio di mesi.

Ogni progetto per palazzi che superino i 60 metri d’altezza segue un percorso di approvazione molto severo, soprattutto per quanto riguarda la sua stabilità e le misure architettoniche adottate per renderlo in grado di assorbire le scosse.

Inoltre, nel 2009, la città ha completato la costruzione di un grande sistema di scolo sotterraneo che ha compreso la costruzione di 5 grandi serbatoi che raggiungono una profondità di 65 metri e con un diametro di 32 metri, che possono essere impiegati per raccogliere l’acqua nel caso di forti piogge, riducendo il rischio di allagamenti in città.

Non è possibile prevedere con precisione il momento e il luogo esatto in cui avverranno i terremoti ed è per questo che le pratiche di prevenzione, per le persone e per gli edifici, sono fondamentali per ridurre i rischi e risparmiare vite umane.

I ragazzi che si amano

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I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è soltanto la loro ombra
Che trema nel buio
Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini
la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Loro sono altrove ben più lontano della notte
Ben più in alto del sole
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout
Contre les portes de la nuit
Et les passants qui passent les désignent du doigt
Mais les enfants qui s’aiment
Ne sont là pour personne
Et c’est seulement leur ombre
Qui tremble dans la nuit
Excitant la rage des passants

Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie
Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne
Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit
Bien plus haut que le jour
Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

Jacques Prevert

Tracce di popoli antichi venuti dall’Est nel Dna degli Europei

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Uno studio internazionale,coordinato da genetisti, ha svelato che nel Dna degli italiani e di altri popoli europei vi è traccia di Oriente a causa di una terza ondata migratoria di genti venute dall’Europa settentrionale e dalla Siberia, avvenuta migliaia di anni fa. E’ stato possibile determinarlo tramite il confronto del Dna di individui moderni e Dna fossile rinvenuto in alcuni resti archeologici risalenti a differenti età. Per l’Italia in particolare sono stati utilizzati campioni di Dna di persone del Sud Italia, in particolare Calabria e Sicilia.

E’ stato effettuato lo screening di campioni di DNA antico estratti da resti ossei di 7.000-8.000 anni fa, provenienti da Lussemburgo e Svezia e Germania, che sono stati confrontati con il dato genomico di popolazioni europee moderne. In totale sono stati analizzati più di 2.400 genomi umani provenienti da circa 200 popolazioni europee. 

Si è arrivati alla conclusione che gli europei hanno geni di tre popolazioni umane ancestrali e non di due, come ritenuto finora. La prima popolazione di cacciatori-raccoglitori giunse dall’Africa più 40.000 anni fa, un secondo grande gruppo di agricoltori giunse in Europa dall’Oriente Medio in tempi più recenti e un terzo gruppo Euroasiatico del Nord, ignorato fino a poco tempo fa, giunse appunto dai territori dell’Europa settentrionale e dalla Siberia circa 24.000 anni fa. Questo terzo gruppo collegherebbe inoltre la popolazione europea con quelle di nativi americani.

Tutte le popolazioni Europee attuali hanno rivevuto il contributo di questi tre gruppi ancestrali ma con proporzioni diverse. Gli Europei del Nord Europa presentano un’ascendenza maggioritaria di cacciatori-raccoglitori, mentre gli europei meridionali una maggiore ascendenza degli agricoltori neolitici. La componente euro-asiatica settentrionale è proporzionalmente la più piccola componente rilevabile in Europa, non supera mai il 20%, ma la si ritrova in quasi tutti i gruppi europei esaminati dallo studio.

Gli europei di oggi posseggono nel proprio DNA una firma genetica euroasiatica, determinata da una profonda trasformazione demografica avvenuta in epoche lontane nel cuore dell’Europa. Con la scoperta di questa terza popolazione ancestrale si aprono pertanto nuovi orizzonti di studio anche in ambito archeologico sulle culture preistoriche.

La popolazione siciliana mostra una forte affinità con le popolazioni del vicino Oriente e risultati simili sono stati ottenuti per i maltesi e per gli ebrei Ashkenazi. Il dato relativo alla Sicilia è inoltre compatibile sia con la copiosa documentazione archeologica, che attesta gli intensi rapporti tra l’isola e il vicino Oriente nei periodi preistorico e protostorico, sia con i numerosi studi di archeogenetica della popolazione siciliana pubblicati negli ultimi 15 – 20 anni.

Un altro dato emerso dallo studio riguarda la quantificazione della frazione di Dna di Neanderthal presente nel genoma dei 9 scheletri che è risultata essere pari a circa il 2%. Una conferma agli studi sul genoma nucleare che hanno dimostrato che i Neanderthal si sono accoppiati con individui della nostra specie.

Franca Florio simbolo della Belle Époque palermitana.

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Francesca Florio (Palermo, 1873 – Migliarino Pisano, 1950) era figlia del barone Jacona della Motta di San Giuliano e di Costanza Notarbartolo di Villarosa, quindi proveniva da una famiglia di aristocratici siciliani. Le sue nozze con Ignazio Florio jr furono inizialmente ostacolate dalla cattiva fama di donnaiolo che il giovane si portava con sé e solo nel 1893 il padre di lei acconsentì alle nozze. Così Franca a 20 anni entrò a far parte della potente e ricchissima famiglia Florio.

Donna bellissima, e quindi polo di attrazione di tutti i salotti palermitani, attirava a sé tutti gli sguardi degli uomini tanto che il Kaiser Guglielmo II la chiamò “La stella d’Italia” e il celebre Gabriele D’Annunzio “l’Unica”.

Alta circa 1,73, occhi verdi, carnagione ambrata e vitino da vespa, donna Franca diventò in poco tempo la donna più ammirata e amata di Palermo e non solo per la sua bellezza, ma anche per il suo modo di essere, per la sua bontà ed intelligenza.

Ricoprì un ruolo fondamentale nella gestione dell’economia della famiglia che contava banche, industrie, cantieri navali, fonderie, tonnare, saline, cantine vinicole con il famoso Marsala e, soprattutto, una delle più grandi flotte europee, la Società di Navigazione Italiana. Il sogno della famiglia Florio era quello di dare a Palermo e alla Sicilia un volto europeo ed è per questo che i due coniugi strinsero amicizie e rapporti di una certa rilevanza in cui Franca giocò un ruolo importantissimo.

Ma Donna Franca fu una donna anche generosa e altruista, impegnata, insieme al marito, in opere filantropiche. A lei si deve la creazione dei primi asili nido all’interno dei vari stabilimenti Florio, la realizzazione dell’Istituto per ciechi, le cucine economiche e gli alloggi popolari. Insieme al marito aiutò anche la città di Messina colpita da un devastante maremoto nel 1908. Infatti, appresa la notizia, Ignazio e Donna Franca salparono sulla nave ammiraglia della loro flotta, il Sultana, dirigendosi nella città dello Stretto con cibo, indumenti e medicine.

Fu protagonista di serate galanti dove sfoggiava abiti sontuosi e preziosissimi gioielli che il marito Ignazio Florio amava regalarle, forse anche per farsi perdonare le frequenti avventure amorose extraconiugali. Pare che lei mai abbia fatto scenate di gelosia anche perchè a riprendere Ignazio ci pensava la madre, Giovanna Florio nata d’Ondes.

Franca aveva gusti raffinati e forse un po’ bizzarri in quanto nella sua casa di Palermo teneva in libertà due scimmiette, due cercopitechi chiamati Fitty e Fufi molto dispettosi, che i camerieri in assenza della padrona legavano a una catenella. Le due scimmiette un giorno provocarono un incendio in cui bruciò “la famosa e preziosissima tenda in pizzo e merletto del Cinquecento, vanto di casa Florio”. Forse gli animali, cercando d’imparare a fumare come avevano visto fare, cominciarono a sfregare i fiammiferi da cucina contro il muro fino ad accenderli.

Donna Franca, capace di giocarsi a carte in una sola sera un patrimonio, inquietava anche i più raffinati spiriti artistici dell’epoca: Gabriele D’Annunzio, Puccini, Leoncavallo, Caruso, Montesquieu, una schiera di illustri pittori, tra cui Boldini e De Maria Bergler ed esponenti della più alta aristocrazia italiana come il duca Cesarini Sforza.

L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe le regalò una tromba d’automobile e, quando l’automobile di  donna Franca passava per le strade di Vienna, al suono della tromba tutti si fermavano come atto di rispetto e di riverenza pensando fosse l’imperatore e invece passava donna Franca.

Una sera, alla Scala di Milano, Arturo Toscanini volse per un attimo le spalle all’orchestra mentre era in corso un applauso, per dirigere il suo inchino verso il palco dove era entrata Franca Florio. Anche nel 1896 all’inaugurazione del Teatro Massimo, dove si rappresentava il “Falstaff” di Verdi, il vero spettacolo fu lei che arrivò avvolta da una stola di zibellino che le copriva le spalle nude, un vestito di seta chiara e la luce sfavillante dei diamanti che l’adornavano.

I gioielli di Franca Florio erano prodotti, dai migliori orafi del mondo, come Cartier e Lalique, che inviavano al Florio conti da capogiro. La famosa “collana di perle della Florio” era un gioiello lunghissimo, che contava trecentosessantacinque perle di grande calibro, pesante e maestosa tanto da mettere in imbarazzo la Regina d’Italia che possedeva una collana di perle più modesta. Franca decise però di non indossare più orecchini dopo che D’Annunzio le fece notare come qualsiasi gioiello pendente dalle sue orecchie avrebbe alterato i lineamenti del suo viso dove si concentrava gran parte della sua bellezza.

Franca vestiva inoltre esclusivamente dal sarto parigino Worth ed amava scegliere le stoffe, abbinare i colori, modificare i modelli e personalizzare i capi da indossare. Eppure Franca Florio non era del tutto soddisfatta perchè aveva una carnagione ambrata mentre lei desiderava una pelle bianca. Così a Parigi si fece porcellanare il viso con una tecnica speciale e dolorosa, un trattamento con smalto liquido. Si racconta che il marito nel vederla tornare a casa così, accecato dalla gelosia, le fece immergere il viso in acqua calda.

Anche quando la moglie si fece ritrarre dal pittore Boldini con una spallina un po’caduta e con le caviglie scoperte, quadro che si trova oggi a Palermo a Villa Igea, Ignazio Florio impose immediatamente l’allungamento del vestito e l’alzata della spallina perché l’atteggiamento, secondo lui, era troppo provocante e non si addiceva ad una nobildonna.

Ma dolori profondi segnarono la sua vita in quanto la prima figlia Giovanna morì a soli 9 anni di meningite, Ignazio, affettuosamente chiamato baby boy ed unico erede maschio, morì l’anno dopo e Giacobbina, nata nove mesi dopo visse solo un’ora. Le figlie rimaste, Igea e Giulia, non erano però considerate vere eredi in quanto femmine.

Tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, a casa Florio ci fu il crollo economico, causato forse dallo sfrenato lusso e dall’incapacità di rinnovare le strategie, ma Franca, addolorata, nonostante tutto terminò con dignità la sua vita confortata dalle figlie ed dai nipoti. Morì nel 1950, a 77 anni, nella Villa Salviati della figlia Igea.

Il Cuju: l’antico calcio cinese

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L’antico gioco cinese chiamato Cuju, nato nello Stato di Qi oltre 2.400 anni fa, aveva molte caratteristiche simili al calcio moderno in quanto era vietato usare le braccia o le mani e l’obiettivo era fare entrare la palla tra due pali.

Il primo riferimento a questo sport apparve durante il periodo degli Stati Combattenti nel testo Zhan Guo Ce ma solo durante la dinastia Han (206 aC— 220 dC), il gioco fu chiamato Cuju, termine che significa ‘calciare la palla’. Palla che allora era fatta di pelle e riempita di pelliccia o capelli.

I testi di quel periodo storico attribuivano la creazione di questo gioco al leggendario Imperatore Giallo o, più realisticamente, a soldati che cercavano un modo per migliorare la muscolatura delle loro gambe.

Questo gioco rimase molto popolare per vari secoli ed era giocato a livello professionale sia tra la gente comune che nella corte imperiale. Anche Liu Bang, il fondatore della Dinastia Han, era un appassionato del Cuju  tanto che nel palazzo imperiale vi era un cortile dedicato a questo gioco dove si sfidavano squadre composte da 12 giocatori.

Un testo della Dinastia Han stabiliva inoltre le regole e l’interpretazione del Cuju e la palla rotonda e il cortile squadrato rappresentavano i concetti taoisti tradizionali di yin e yang. A differenza del calcio moderno, le porte erano piccole e a forma di luna e ce n’erano sei ai due estremi del campo di gioco. Prima della partita i 24 giocatori e i loro capitani eleggevano un arbitro, che doveva fare da mediatore in base al regolamento.

Il Cuju rimase molto popolare per una decina di secoli e i giocatori che godevano di grande popolarità si arricchirono poi, durante l’ultima dinastia imperiale dei Qing (1644-1911), il gioco fu modificato e veniva giocato su una pista di pattinaggio.

Durante le dinastie Tang e Song il Cuju era praticato da uomini e donne, nobili e persone comuni tanto che un antico testo racconta di una memorabile partita tra donne che coinvolse 153 persone. Le signore, che indossavano abiti ricamati e fascie di seta di quattro colori, avevano giocato di fronte a un pubblico di decine di migliaia di persone.

Nel decimo secolo, durante la dinastia Song, apparvero associazioni professionali di Cuju nelle maggiori città cinesi che possono essere considerati i primi club sportivi al mondo.