Carlo Lorenzini, detto Carlo Collodi, padre dell’icona universale Pinocchio

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Carlo Lorenzini, detto Carlo Collodi, nacque nel 1826 a Firenze da una famiglia molto modesta: il padre era cuoco e la madre domestica al servizio della famiglia fiorentina dei marchesi Ginori. Egli trascorse la sua infanzia a Collodi, il paese di origine della madre, e poi, a causa delle difficili condizioni economiche familiari, a dodici anni entrò in seminario.

Nel 1842 Carlo tornò a Firenze per proseguire gli studi umanistici presso una scuola dei padri scolopi ma, due anni dopo, abbandonò gli studi e lavorò presso la libreria Piatti come commesso.

Entrò così in contatto con intellettuali, giornalisti e letterati e dal 1847 diventò anche collaboratore della Rivista di Firenze. Nel 1848 entrò poi  nella burocrazia statale e diventò col tempo Segretario amministrativo.

Partecipò alla Prima guerra di indipendenza restando colpito dalla disorganizzazione dell’esercito e dall’inettitudine delle classi dirigenti per cui fondò il quotidiano satirico Il Lampione che aveva posizioni antiaustriache e democratiche e poneva la necessità dell’educazione delle fasce più basse e  arretrate della popolazione.

Il Lampione fu presto colpito dalla censura del Granducato di Toscana e allora Collodi fondò e diresse tra 1853 e 1855 il periodico Scaramuccia. Nel 1856 scrisse Un romanzo in vapore che era una specie di guida turistica che seguiva la linea ferroviaria Firenze-Livorno, detta Leopolda, alternando descrizioni di viaggio, informazioni pratiche e brevi inserti narrativi, comici o bozzetistici.

Nel 1857 pubblicò I misteri di Firenze che era una parodia del genere ottocentesco del romanzo d’appendice ed in particolare delle opere di Eugène Sue (1804-1857).                                                                                     

Dopo aver partecipato alla Seconda guerra di indipendenza nel 1859 frequentò il Caffè Michelangelo, luogo di ritrovo della corrente pittorica dei Macchiaioli.

Nel 1875 l’editore Paggi pubblicò il libro I racconti delle fate dove egli aveva tradotto i Racconti  di mia madre Oca di Charles Perrault (1628-1703) che comprendevano i racconti di PollicinoCappuccetto rossoLa bella addormentataIl gatto con gli stivali e Cenerentola.

Visto il successo, gli furono commissionati altri testi che coniugassero invenzione narrativa e finalità didattica  visto che nel 1877 la riforma dell’educazione del ministro Coppino aveva reso obbligatori i primi tre anni di studi elementari, creando così un mercato di libri di testo per scolari. Nacquero così Giannettino (1877) e Minuzzolo (1878), romanzi che poi diventarono anche testi per l’insegnamento. 

Storia di un burattino, vide la luce come racconto a puntate per il Giornale per i bambini e quando Collodi interruppe la narrazione dovette riprenderla a causa delle  proteste dei lettori. Diede così alla storia una conclusione positiva : il burattino di legno, avendo appreso il valore dell’istruzione e dell’educazione, si trasformò in un bambino vero.

Il racconto narra le esperienze disastrose, ma ricche di colpi di scena, di una marionetta animata di nome Pinocchio, scolpita nel legno da Mastro Geppetto che si considera come suo padre. Pinocchio però non è solo un burattino che vuole diventare bambino o un volto tondo con un lungo naso di legno ma è un’icona universale e una metafora della condizione umana.

Nel 1883 Le avventure di Pinocchio furono pubblicate in un volume di trentasei capitoli che poi diventò un best seller, risultando uno dei libri più letti nell’intera letteratura mondiale.

La vita personale di Carlo Collodi racconta invece di uno scapolo impenitente con numerosi flirt, alcuni dei quali tanto scandalosi da costringere i parenti a distruggere le prove di quelle relazioni.

Il fratello Paolo Lorenzini bruciò infatti una gran quantita’ delle lettere private dello scrittore toscano, subito dopo la sua morte. Quei carteggi avrebbero potuto compromettere alcune signore all’epoca ancora viventi. I parenti erano preoccupati che trapellassero notizie sulla vita intima dello scrittore, forse molto libertina, che aveva avuto contatti con gli ambienti scapigliati fiorentini e milanesi. Pensavano che potesse destare scandalo sapere che un autore di un celebre racconto per ragazzi avesse intrattenuto amori plurimi.

Tra gli amori dello scrittore vi era il legame con la celebre cantante lirica Giulia De Filippi, sposata a Cesare Sanchioli, da cui ebbe due figlie. Nata nel 1819 a Milano, la soprano aveva conosciuto lo scrittore  nel 1856 quando egli assunse la carica di segretario della Societa’ drammatica Romandiolo-Picena a Bologna. Della loro relazione amorosa resta solo una breve lettera della Sanchioli a Collodi, datata 21 luglio 1858, che sembra alludere ad una storia intima finita, come tante altre, in burrasca.

All’apice del successo, nel 1890, a un mese dal compimento del suo sessantaquattresimo anno, mentre stava rientrando, Collodi morì per un aneurisma  proprio sull’uscio di casa a Firenze.

Il tuo cuore lo porto con me

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Il tuo cuore lo porto con me
Lo porto nel mio
Non me ne divido mai.
Dove vado io, vieni anche tu, mia amata;
qualsiasi cosa sia fatta da me,
la fai anche tu, mia cara.
Non temo il fato
perché il mio fato sei tu, mia dolce.
Non voglio il mondo, perché il mio,
il più bello, il più vero sei tu.
Questo è il nostro segreto profondo
radice di tutte le radici
germoglio di tutti i germogli
e cielo dei cieli
di un albero chiamato vita,
che cresce più alto
di quanto l’anima spera,
e la mente nasconde.,
Questa è la meraviglia che le stelle separa.
Il tuo cuore lo porto con me,
lo porto nel mio.

Edward Estlin Cummings

L’onda – capitolo nove

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La frescura  e l’odore d’incenso

L’alba stava spuntando di nuovo e Maria si sentiva molto stanca dopo una notte insonne passata a contemplare la volta celeste che le sembrava una cartolina stampata con appiccicati brillantini dorati che sbarluccicavano ad intermittenza.

Il suo cuore le pareva sempre più pesante perché mai avrebbe pensato di poter essere violenta con qualcuno anche se si ripeteva che non c’era altro modo per costringere Menicuzzu a lasciare andare Turi.

Continuava però a sentire il bisogno di chiedere con urgenza perdono alla Madonnina Santa e, con il suo perdono, di ripulirsi l’anima che sentiva torbida e malvagia.

Si vestì allora in fretta e andò a casa di Carmela che, ancora in camicia da notte, stava sorseggiando una enorme tazza di caffè seduta su un muretto con gli occhi socchiusi.

Maria sapeva che stava parlando con il creato e restò per un po’ immobile fino a quando l’amica, senza neanche riaprire gli occhi, le fece segno di sedersi e disse:

“Allora si può sapere che vuoi?”

Maria chiedendosi, come sempre, come facesse a vedere anche ad occhi chiusi, restò in piedi e disse:

” Ho bisogno che tu mi guardi Turi per un po’ di tempo a casa mia. Puoi farlo? “.

Carmela sospirò profondamente: ” E dove devi andare questa volta? “

” Voglio andare a chiedere perdono alla Madonnuzza Santa prima che in Chiesa arrivi qualcuno. Ho bisogno di pregarla in solitudine e in silenzio fino a quando non mi avrà restituito la pace nel cuore.” rispose Maria.

“Ti sentivi forse più in pace quando Menicuzzu prendeva a cinghiate Turi e lo faceva sanguinare? O forse quando, per cambiare, gli spezzava le ossa a bastonate? “.

Maria non sapeva più cosa fosse giusto o sbagliato ma sentiva di dovere andare in chiesa. Carmela apri gli occhi, la guardò poi si girò di lato e con la mano le fece cenno di andare sussurrando con voce roca:

” Ancora qua sei? “

Maria mentre il sole faceva ormai capolino in mezzo ai lentischi ed agli alberi di ulivo, si avviò con passo spedito verso la vecchia chiesa che era stata costruita a mano dagli abitanti del paese. Lungo la strada intravide Pietruzzu detto ” lo scaltro” che si era addormentato sopra al solito muretto, che ormai i paesani chiamavano con il suo nome, con un sorriso ebete sul volto che gli regalava un aspetto di intensa felicità.

Quando giunse sul sagrato della chiesa, Maria si senti’ già più sollevata ed ammiro’ con devozione le statue di gesso raffiguranti i due Santi che, dentro alle loro nicchie poste sulla facciata, rammentavano a tutti che quello era un luogo sacro.

Il massiccio portone era spalancato e dentro sembrava regnare una grande pace. Maria si legò un fazzoletto in testa ed attraversò il portone azzurro. Senti’ subito la frescura del luogo e aspiro’ l’odore di incenso che ancora aleggiava nell’aria, poi si diresse verso l’acquasantiera per farsi il segno della Croce.

Ad un tratto però senti’ uno strano trambusto frammezzato da gemiti soffocati che provenivano dal fondo della navata di sinistra, proprio dietro al confessionale.  Allarmata e tutta incuriosita allora Maria con passo leggero si avviò per capire cosa stesse succedendo.

Quando silenziosamente arrivò sul luogo incriminato spalancò gli occhi dalla sorpresa e a stento represse il grido che con prepotenza le saliva dal petto, incapace di credere a quello che vedevano i suoi occhi.

Geronimo il sognatore del futuro

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Geronimo, il cui vero nome era Goyaałé, era un Apache Chiricahua nato nel 1829 nell’attuale Nuovo Messico, all’epoca terra degli Apache Bedenkohe. Dopo la morte di suo padre visse con la madre con i Chihenne e sposò, a diciassette anni, Alope dalla quale ebbe tre figli.

Fu uno sciamano molto rispettato chiamato anche il Sognatore, per la sua presunta capacità di predire il futuro, ed un guerriero molto abile spesso in lotta contro i soldati messicani da quando nel 1858, durante un attacco da parte di una compagnia di militari messicani guidati dal colonnello Josè Marìa Carrasco, vennero uccisi sua madre, sua moglie e i suoi figli. Furono proprio le truppe messicane  a dagli il soprannome di Geronimo perché pare che invocassero questo santo per riuscire a catturarlo.

Risposatosi con Chee-hash-kish, che gli diede altri due bambini, Chappo e Dohn-say, poi si risposo’ con Nana-tha-thtith, dalla quale ebbe un altro figlio. Alla fine in tutto ebbe otto mogli poiché alle prime tre si aggiunsero Zi-yeh, She-gha, Shtsha-she, Ih-tedda e Azul.

Geronimo divenne famoso per il suo coraggio e per essere sfuggito numerose volte alla cattura probabilmente per un carattere estremamente sospettoso e per un’astuzia innata. L’episodio più leggendario che lo riguarda avvenne tra le Robledo Mountains, quando egli, per sfuggire ai nemici, si nascose in una caverna ancora oggi conosciuta come Geronimo’s Cave.

Questo capo Apache per più di un quarto di secolo contrasto’ l’espansione a Ovest dei bianchi e si mise alla guida dell’ultimo gruppo di pellerossa che non volevano riconoscere l’autorità del governo degli Stati Uniti.

La loro lotta finì però il 4 settembre 1886 quando in Arizona, a Skeleton Canyon, Geronimo si arrese a Nelson Miles generale dell’esercito statunitense. Subito dopo venne imprigionato in Florida a Fort Pickens, e poi nel 1894 fu trasferito a Fort Sill, in Oklahoma.

Divenuto celebre in età avanzata, partecipò a numerose fiere locali e anche all’Esposizione Universale di Saint Louis del 1904, vendendo fotografie e souvenirs ispirati alla sua vita, ma non riuscì mai a ottenere la possibilità di tornare nella sua terra d’origine.

Geronimo detto’ a viva voce la storia della sua vita divagando da un argomento all’altro, secondo l’uso indiano, in assoluta libertà. I temi si intrecciano nel libro biografico in grande disordine: il canon No-doyohn nel quale è nato, la caccia al bisonte, le tradizioni religiose della sua tribù, la raccolta del sale, la scelta delle erbe medicinali, le danze, i giochi, i banchetti, i divertimenti. Parlò dell’arrivo delle truppe dei bianchi, delle successive  scorrerie, delle spedizioni punitive e dei massacri che Geronimo visse in prima persona dal 1858 al 1886.

Caduto da cavallo, rimase all’addiaccio e fu trovato solo il giorno seguente e così due giorni dopo morì di polmonite a Fort Sill il 17 febbraio 1909. Le sue ultime parole furono riferite a suo nipote: “Non avrei mai dovuto arrendermi, avrei dovuto combattere fino a quando non fossi l’ultimo uomo vivo”

Secondo varie voci, le sue  spoglie sarebbero state trafugate nel 1918 da un gruppo di studenti universitari di Yale facenti parte della setta segreta degli Skull and Bones. Il teschio sarebbe stato conservato in una teca di vetro e utilizzato durante i riti di iniziazione

La prima ragione di vita

Nel 1994 il cantautore Johnny Cash scrisse alla moglie June Carter Cash, in occasione del 65esimo compleanno di June, una lettera d’amore che è stata definita la più bella di sempre perché riesce a descrivere appieno l’ intensità dell’amore che egli provava per lei.

Un amore che non si era mai spento nonostante che i due, che si erano sposati nel 1968, fossero rimasti insieme per oltre 30 anni. June morì nel 2003 e qualche mese dopo quell’evento traumatico morì anche Johnny.

La lettera recitava così:

“Buon compleanno principessa, ormai siamo vecchi e ci siamo abituati l’uno all’altra. La pensiamo nello stesso modo. Leggiamo la mente dell’altro. Sappiamo quello che l’altro vuole anche senza dirlo. A volte ci irritiamo anche un po’. Forse a volte ci diamo anche per scontati. Ma ogni tanto, come oggi, medito su questo e mi rendo conto di quanto sono fortunato a condividere la vita con la più grande donna che abbia mai incontrato. Continui ad affascinarmi e ad ispirarmi. La tua influenza mi rende migliore. Sei l’oggetto del mio desiderio, la prima ragione della mia esistenza. Ti amo tantissimo. Buon compleanno principessa, John”.

L’attualità del precetto “Λάθε βιώσας”, vivi nascosto, di Epicuro

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Epicuro con la citazione lathe biosas, vivi nascosto, esprimeva la convinzione che la solitudine consenta di vivere meglio permettendo all’individuo di assaporare maggiormente il piacere intero della vita. Sosteneva cioè l’importanza di stare da soli per scelta, anche se è una condizione molto difficile da attuare.

Il silenzio prolungato, guadagnato con la solitudine, consente finalmente  di sentire la propria voce interiore,  una periodica inattività consente di rilassare mente e corpo ed anche il lavoro manuale, svolto da soli, di fatto è una pratica meditativa che dà spazio al pensiero ed alla costruzione originale di idee.

Vivere nascosti  consente inoltre di recuperare il contatto ed il rapporto con la natura, della quale facciamo parte, che facilita il ricongiungimento di ogni anima con il resto del creato. Quindi coltivare e dedicarsi alle  cose  che si amano, misurandosi solo ed esclusivamente con se stessi, dà voce alla propria interiorità e crea armonia. 

È importante anche seguire un’alimentazione che risponda e corrisponda alle esigenze psicofisiche e al fabbisogno energetico di ciò che stiamo effettivamente facendo, di giorno in giorno, perché altrimenti non può esserci armonia tra mente e corpo.

In questa epoca il pensiero di Epicuro del “lathe biosas” è tornato prepotentemente di attualità poiché non è semplice restare equilibrati  in mezzo al forte rumore  imperante, non finalizzato, che non solo non  ci lascia energia, passione, idee nostre ma ci fa sentire anche la sensazione di essere attanagliati dall’ ansia. Oggi si vive da soli perché così impongono  lo stile  di vita e le regole sociali dominanti e spesso ognuno bada a sé e nosi accorge dell’altro.

Serve tempo, modo, luoghi, condizioni adeguate per sentire risorgere la nostra creatività attraverso quella solitudine che si discosta però piuttosto nettamente dal distacco e disinteresse nei confronti degli affari pubblici, come invece pensava Epicuro.

Nella civiltà greca, culla della democrazia, dimensione privata e pubblica dell’individuo infatti non erano tenute nettamente distinte e separate, come siamo attualmente abituati a considerarle. Ed inoltre in quella stessa cultura  era fondamentale il concetto del  timè, l’onore e la stima che gli antichi si impegnavano a guadagnarsi all’interno della loro comunità.

E per questo una prescrizione come quella del “lathe biosas” risultava  molto contraria ad una tradizione tanto radicata nella mentalità ellenica e non poteva che suscitare aspre condanne da parte del pensiero predominante.  Sembrava come un invito a rinunciare al riconoscimento pubblico e sociale ed al proprio timè. 

Ai nostri giorni la spasmodica ricerca di approvazione ha generato l’illusione in molti che il numero di seguaci o followers, like e visualizzazioni sia direttamente proporzionale e indicativo di una qualche virtù o merito. Si arriva ad una sovraesposizione di sé che supera persino la non distinzione e la non separazione tra pubblico e privato dell’antichità.

Si rende di pubblico dominio ogni aspetto del proprio privato, laddove per i greci si trattava, invece, di un’etica di coerenza e corrispondenza tra la propria condotta tanto nella vita privata quanto in quella pubblica.

Il pudore, quella che era la pudicitia per i romani e l’aidòs per i greci, viene spesso sacrificato per rincorrere istanti di notorietà tramite i social ed ecco quindi che vivere nascosti potrebbe essere l’ unica soluzione per preservare la propria intimità e potrebbe rappresentare la cura necessaria per la salute psichica individuale che riporti una sana gelosia della propria persona, della propria interiorità e della propria unicità.

 

Sognare non è da tutti

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Quelli che sognano li riconosci, hanno negli occhi un velo di tristezza. Hanno la malinconia addormentata agli angoli della bocca, hanno l’aria di chi cerca ma non trova. Sognare è faticoso, sognare non è da tutti. È per le persone coraggiose, sognare. Come il mare e l’amore.”

Susanna Casciani

Pirati senza e con autorizzazione

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Nel Mar Mediterraneo la pirateria è stata un fenomeno antichissimo poichè di fatto consisteva nel brigantaggio svolto in mare invece che sulla terra. Ad assaltare di sorpresa le navi che veleggiavano, al fine di rubarne i carichi, erano Fenici, Greci, Illiri, Liguri, Etruschi e tutte le popolazioni che si affacciavano sul Mediterraneo. Ipirati agivano senza regole e utilizzavano navi agili e leggere.

I Romani organizzarono a più riprese flotte incaricate di debellare la pirateria e fecero leggi speciali per inasprire le punizioni per i pirati catturati. Gli stessi Arabi e i Normanni furono visti in un primo tempo essenzialmente come pirati.

I pirati si mettevano a volte anche al servizio di Stati che erano in guerra e costituivano così flotte non ufficiali, ma sui cui pennoni sventolavano regolari bandiere. Solo dal 12°-13° secolo cominciano ad esserci navi private che però erano autorizzate anche formalmente perché fornite di lettere di corsa o di marca da Stati in guerra. I membri di questi navigli erano chiamati corsari e partecipavano ad azioni contro navi nemiche che potevano legalmente depredate e distruggere e, se catturati, non erano uccisi ma erano dichiarati prigionieri di guerra.

Più tardi i corsari diventarono protagonisti del secolare conflitto tra Francia e Inghilterra, in particolare durante il regno della regina inglese Elisabetta I nella seconda metà del Cinquecento. Francis Drake, Walter Raleigh e John Hawkins erano di fatto soldati che combattevano gli Spagnoli per conto della sovrana con la quale peraltro sparivano il bottino.

Le flotte corsare divennero attive anche in tutto l’Oceano Atlantico e nel Mar delle Antille da dove controllavano le rotte dei convogli nemici. Nelle isole caraibiche i corsari vennero definiti anche bucanieri poiché originariamente erano agricoltori e cacciatori di frodo dell’entroterra delle isole che, dai nativi Arawak di Santo Domingo, avevano imparato ad arrostire la carne su graticole di legno chiamate boucan, per cui nel seicento vennero chiamati in francese boucanier. Tale usanza dominicana era nota in origine come barbicoa, da cui deriva il termine barbecue. Intorno al 1630 questi bucanieri vennero in urto con gli Spagnoli, si affacciarono al mare e confluirono in un’associazione particolare allestendo una flotta con cui combatterono la Spagna spesso in alleanza con l’Inghilterra.

Inoltre dei fuggitivi olandesi, francesi e inglesi, cacciati dagli Spagnoli da altre isole delle Antille, si riunirono sull’isola di Tortuga all’inizio del XVII secolo e, con la connivenza istituzionale dei rispettivi Stati, fondarono la Filibusta, associazione che assaltava i ricchi possedimenti e i galeoni spagnoli. Il nome filibustiere nasce dall’inglese freebooter, composto di free ‘libero’ e booty ‘bottino’: letteralmente, saccheggiatore libero. L’appoggio istituzionale non era ufficiale, e in questo i filibustieri si distinguevano dai corsari, mentre la complessità diplomatica dell’organizzazione li distingueva dai pirati che invece erano fuorilegge senza regole istituzionali. Ad ogni modo l’odio comune per gli Spagnoli fece unire i bucanieri ai filibustieri.

Alla fine del Seicento i corsari erano attivi anche nel Pacifico e contribuirono ad  instaurare le colonie inglesi, francesi e olandesi nelle Indie Occidentali. La guerra di corsa andò in disuso dal Settecento ma non  la pirateria che venne combattuta nel corso del 19° secolo dagli Inglesi in Estremo Oriente, Malesia, Cina, Borneo e che ancora oggi esiste in quelle stesse zone.