Victor, il ragazzo selvaggio dal sorriso grazioso

Victor o il ragazzo selvaggio dell’Aveyron (Aveyron, 1788 circa – Parigi, 1828) fu un trovatello che aveva vissuto l’infanzia in solitudine nei boschi del Massiccio centrale in Francia. È il caso di ragazzo selvaggio più documentato anche per l’attenzione che ebbe nell’ambito del dibattito illuminista sulla natura dell’uomo.

Il ragazzo fu avvistato per la prima volta da alcuni taglialegna nel 1797 in un bosco dove vagava nudo con una difficoltosa stazione eretta e si nutriva di ghiande e radici. Catturato nel 1798, fuggì e fu ripreso soltanto nell’anno seguente da tre cacciatori dai quali aveva tentato di scappare arrampicandosi su un albero. Non appariva in grado di parlare né di comprendere il linguaggio umano, tanto che fu creduto sordomuto.

Presto fuggì di nuovo, sopravvisse nei boschi al rigido inverno 1799 ma a gennaio 1800 fu catturato definitivamente a Saint-Sernin, vestito solo dei brandelli di una camicia, dopo essersi rifugiato nella bottega di un tintore.

Il ragazzo non comunicava né a voce né a gesti, ma reagiva al dolore con suoni inarticolati, era sensibile alle carezze e mangiava le patate bollenti dopo averle gettate nel fuoco. All’indomani della cattura fu trasferito in un orfanotrofio dove restò quasi un mese.

Nei primi tempi il ragazzo, cui fu imposto all’inizio il nome di Joseph, si strappava le vesti e rifiutava di dormire in un letto e accettava per cibo, dopo averle fiutate, soltanto patate, noci e castagne crude.

Riuscì di nuovo due volte a scappare ma fu subito ripreso e poi il naturalista abate Pierre Joseph Bonnaterre ebbe il permesso di condurlo nell’ospedale di Rodez, in attesa che fosse chiarita la sua nascita.

Andarono a vederlo due uomini, che avevano entrambi smarrito un figlio in occasione di scontri armati durante la Rivoluzione francese, ma nessuno dei due lo riconobbe per proprio. Secondo voci il giovane era nato da un matrimonio regolare ed era stato abbandonato dai genitori circa sei anni prima perché incapace di parlare.

Bonnaterre era a conoscenza di altri casi di ragazzi selvaggi, all’epoca noti e classificati da Linneo come varianti del genere umano, ma lo studiò a fondo sospettando che si trattasse di un ragazzo abbandonato piuttosto che di un individuo sempre vissuto nei boschi.

All’ospedale di Rodez, da cui il ragazzo pure tentò di scappare almeno quattro o cinque volte, l’abate Bonnaterre ne stabilì l’altezza in 1,36 m, ne stimò l’età approssimativa in dodici o tredici anni e ne offrì la seguente descrizione: “Ha pelle bianca e sottile; viso tondo; occhi neri e infossati; ciglia delle palpebre lunghe; capelli castani; naso lungo, un po’ appuntito; bocca media; mento arrotondato; fisionomia gradevole e sorriso grazioso.”

Esaminando la cavità orale scoprì che la lingua non aveva malformazioni ma una recessione della gengiva inferiore, in corrispondenza della quale i denti si mostravano giallastri alla base. Sul corpo e sul viso del giovane vide numerose cicatrici da ustione ma una di esse consisteva in un lungo taglio trasversale di 4,1 cm presso il limite superiore della trachea, all’altezza della glottide.

Il naturalista suppose trattarsi di una vecchia ferita d’arma da taglio e ne dedusse che il ragazzo poteva essere sopravvissuto a un tentato omicidio da parte di chi l’aveva abbandonato nella foresta. Altre cicatrici alle spalle, all’inguine, al pube, alle gambe e alla natica destra furono attribuite a maltrattamenti, all’attacco di animali o ad altri incidenti avvenuti nei boschi.

L’ordine d’importanza dei suoi sensi, rispetto a quelli delle persone comuni, era diverso e per il ragazzo selvaggio era primario l’olfatto, seguito dal gusto, dall’udito, dalla vista e infine dal tatto. Lo studioso ipotizzò che la sua incapacità di parlare fosse dovuta a una malformazione degli organi vocali, alla ferita alla glottide e allo stesso isolamento dalla società umana. Inoltre forse il giovane, benché non del tutto privo di ragione, poteva avere anche qualche deficit intellettivo.

Il ragazzo selvaggio nel 1800 fu ricoverato a Parigi presso l’Istituto per sordomuti dove lo psichiatra Philippe Pinel trasse conclusioni opposte a quelle di Bonnaterre: il giovane era minorato in tutte le funzioni sensoriali e intellettuali, adatto solo a una vita animale, presentava tutti i segni dell’idiozia e poteva supporsi incapace di qualunque risocializzazione o istruzione. Da tali conclusioni dissenti’ il medico e pedagogista Jean Itard.

Il ragazzo riuscì ancora due volte a scappare dall’Istituto finché nel 1801 fu preso in carico da Itard e affidato alle cure della signora Guérin, che si sarebbe occupata per tutta la vita di lui.

Itard notò che il fanciullo reagiva al suono dell’esclamazione «oh» e pertanto gli scelse quindi il nome Victor per l’accento tonico che in esso cade sulla vocale. Documentò inoltre i suoi tentativi di educazione anche se la seconda relazione del 1806 mostrò però i chiari segni della sconfitta.

Victor aveva compiuto progressi sensoriali, intellettivi e morali assai limitati e restava in sostanza un individuo asociale.  Si districava tra le semplici attività quotidiane e poteva anche scrivere e associare alcuni oggetti alle parole, ma non fu mai in grado di formulare concetti astratti ed esprimersi oralmente, eccetto solo l’articolazione di semplici espressioni come oh Dieu ! («o Dio!») e lait («latte»).

Mostrò un istinto sessuale indifferenziato e non ebbe mai coscienza della funzione sociale della sessualità, tanto che dopo sei anni tornò all’Istituto per sordomuti ma ne fu allontanato subito dopo per via delle sue frenetiche pubbliche masturbazioni.

Dal 1811 fino alla morte, Victor visse così con la signora Guérin in una casa privata ricevendo una pensione statale ma di questo periodo della sua vita praticamente non si sa nulla. Morì del tutto dimenticato dall’opinione pubblica nell’inverno 1828 e fu sepolto in una fossa comune.

Forse Victor è stato vittima della crudeltà degli adulti che l’avrebbero abbandonato nei boschi perché disabile magari dopo aver tentato di ucciderlo. Ad avanzare questa tesi per primo fu Bonnaterre ma altri indizi, oltre alla cicatrice alla gola rilevata, parevano deporre in tal senso.

Il commissario Guiraud inoltre ebbe modo di rilevare la sua strana attitudine a lasciarsi legare porgendo egli stesso le braccia e ipotizzò che all’origine della sua vita nei boschi vi fosse una fuga spontanea dai maltrattamenti subiti.

Non è neppure escluso che la ferita al collo avesse compromesso la laringe e fosse davvero la causa della difficoltà di linguaggio, anche se a volte questa caratteristica viene vista come segno di autismo. La storia fu portata al cinema nel 1970 dal film Il ragazzo selvaggio di François Truffaut.

Hyvää Joulua, Buon Natale!

In finlandese dicembre si dice joulukuu, cioè mese= kuu e Natale =joulu, e Babbo Natale si chiama invece Joulipukki. Egli, insieme a sua moglie Joulumuori, vive in Lapponia ma il Natale, continuando una tradizione nata nel Medioevo, inizia nell’antica capitale finlandese chiamata Turku con la Dichiarazione Natalizia di Pace. Nel frattempo Joulipukki sfila per le strade di Helsinki tra le ghirlande illuminate.

Nelle case l’albero si fa il 23 dicembre e il Natale viene festeggiato nel giorno della vigilia in cui è tradizione fare la sauna con tutta la famiglia, andare a trovare i propri defunti al cimitero, pranzare con i parenti e aspettare che Babbo Natale bussi alla porta, interroghi i bambini per sapere se sono stati buoni e distribuisca i regali.

Joulupukki significa in finlandese letteralmente ‘capra dello Yule’ e lo Yule nella tradizione pagana, celtica e germanica, era la festa del solstizio d’inverno. Pukki era infatti la capretta simbolo di quella festività e doveva spaventare i bambini chiedendo loro dei regali. Il suo ruolo cambiò del tutto nel corso del tempo trasformandosi pian piano nel contrario e cioè in una figura che portava i regali. Con l’arrivo del cristianesimo poi Babbo Natale sostituì la capretta.

Babbo Natale vive insieme anche a tanti piccoli elfi, i joulutonttu, all’interno di una montagna chiamata Korvatunturi, situata nel piccolo villaggio di Savukoski, la cui strana forma fa pensare che abbia tre orecchie per ascoltare i desideri dei bambini di tutto il Mondo. Ma l’entrata della montagna è segreta e nessuno sa dove si trova.

Il sospetto di Laocoonte e i serpenti marini

Laocoonte, personaggio della mitologia greca figlio di Antenore, era un veggente e gran sacerdote troiano addetto al culto di Apollo. Si era però unito con sua moglie Antiope davanti alla statua del dio attirandosi così la sua collera.

La sua leggenda era già stata narrata nel poema ciclico Distruzione di Ilio, da cui Sofocle trasse il suo Laocoonte che però andò perduto, ma la versione più nota è quella che appare nel secondo libro dell’Eneide.

Lacoonte aveva sconsigliato i suoi concittadini Troiani di introdurre nella città il cavallo di legno lasciato dai Greci ingannevolmente come voto e poi corse verso di esso scagliandogli contro una lancia che ne fece risonare il ventre pieno. Quindi proferì la celebre frase:

” Timeo Danaos et dona ferentes

 «Temo i greci, anche quando portano doni »

Ma subito dopo la Dea Pallade Atena, che parteggiava per i Greci, punì Laocoonte mandando Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini, che arrivarono dalla vicina isola di Tenedo. Usciti dal mare, essi prima avvinghiarono e soffocarono Antifate e Tymbreus, i due figli di Lacoonte, e poi stesso lo stesso padre che era accorso ad aiutarli.

I Troiani, credendo che Lacoonte fosse stato ucciso dagli dei per punizione, presero questa uccisione come un segno e portarono il cavallo all’interno della città, causando così la rovina di Troia.

Il Gruppo del Laocoonte è una scultura ellenistica della scuola rodia realizzata in marmo, alta 242 cm, che si trova conservata nei Musei Vaticani della Città del Vaticano e raffigura questo famoso episodio narrato nell’Eneide. L’opera è probabilmente una copia romana della versione originale in bronzo.

Sindrome di Stoccolma anche nella vita privata

La Sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica che porta ad instaurare rapporti affettivi tra le vittime di un sequestro e i loro rapitori e si manifesta quando una vittima prova sentimenti positivi, e perfino affettivi, verso i propri sequestratori e invece sentimenti negativi verso la polizia o altre autorità governative. Sembra essere una risposta automatica e inconscia al trauma del rapimento e non un comportamento deciso e consapevole ed inoltre coinvolge sia i sequestrati e i sequestratori.

Il termine Sindrome di Stoccolma è stato utilizzato per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in riferimento ad un famoso episodio accaduto in Svezia tra il 25 ed il 28 agosto del 1973 quando due rapinatori tennero in ostaggio per 131 ore tre donne ed un uomo nella camera di sicurezza di una banca della città di Stoccolma.

Durante il periodo di prigionia le vittime temevano più la polizia dei rapitori e addirittura una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno di loro che durò anche dopo la fine della vicenda. Avvenne inoltre che, dopo il rilascio, i sequestrati chiesero clemenza per i sequestratori e durante il processo alcuni testimoniarono in loro favore.

Nella formazione di questo legame positivo incidono anche la durata e l’intensità della situazione, la dipendenza dell’ostaggio dal sequestratore per la sua sopravvivenza e la distanza psicologica dell’ostaggio dalle autorità. Non fa differenza invece se il sequestro avviene per fini politici, terroristici, a scopo di estorsione o per rapina.

La relazione positiva tra rapitore e rapito appare abbastanza solida entro il 3° giorno di prigionia perché nei primi momenti dopo il sequestro il rapito è in stato un po’ confusionale ma quando poi diventa consapevole della situazione deve trovare un modo per sopportarla e l’isolamento e il tempo trascorso insieme aiutano la nascita dell’alleanza fra loro.

La mancanza di percosse, di violenza carnale o di abuso fisico facilita la nascita della sindrome mentre invece gli abusi meno intensi, come le privazioni e le umiliazioni, vengono razionalizzati e le vittime si convincono che l’atteggiamento di forza del sequestratore sia necessario per poter controllare la situazione oppure addirittura che sia dovuto a fronte di comportamenti scorretti da parte delle vittime.

I rapitori controllano cibo, aria, acqua e sopravvivenza e le loro concessioni giustificano la gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano verso i loro carcerieri come meccanismo psicologicamente difensivo.

Spesso alla base di questo tipo di legame vi è un comune risentimento nei confronti della polizia in quanto anche l’ostaggio ritiene che l’insistenza per la resa del criminale e la possibilità di un’incursione siano pericolose per la sua vita e gli creano molta ansia e paura. Inoltre la vittima percepisce le forze dell’ordine meno potenti del delinquente stesso perché non hanno fornito la giusta protezione nel momento del sequestro.

Queste dinamiche comportamentali avvengono anche nelle situazioni personali quando i ruoli che si instaurano all’interno di un qualsiasi tipo di relazione, e anche in una relazione amorosa, assomigliano a quelli della vittima e del carceriere. Quindi, anche senza essere vittime di un sequestro di persona, alle volte il “carcere” può essere inflitto all’altro con dinamiche deviate.

Il segnale che qualcosa non va è quello che fa sentire una persona, anche molto giovane, in sudditanza verso l’altro che la manipola a suo piacimento. Spesso, dietro a tutto questo, si cela una situazione di debolezza oggettiva o di bassa stima di sé della vittima che trova un incastro negativo con l’ego spropositato del carnefice che pensa di avere “diritto di vita e di morte” sull’altro.

La sindrome di Stoccolma, che però non è codificata in nessun manuale diagnostico, è più frequente nelle donne, nei bambini, nelle persone particolarmente devote a un certo culto, nei prigionieri di guerra e nei prigionieri dei campi di concentramento. Non si conosce ancora la possibile durata di questa Sindrome, ma si pensa possa persistere anche per molti anni e si è riscontrato che chi ne è stato affetto, anche a distanza di tempo, presenta disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi e depressione.

La Catacombe dei Cappuccini e il corpo imbalsamato della piccola Rosalia Lombardo

Le Catacombe dei Cappuccini si trovano a Palermo sotto la Chiesa di Santa Maria della Pace e sono state utilizzate come  luogo di sepoltura sin dalla fine del 1500. 

Sono composte da decine di metri di gallerie e corridoi dove i morti sono esposti vestiti e con barba e capelli, alcuni in posizione verticale, ed alcuni sono perfettamente conservati mentre altri meno.

Le Catacombe dei Cappuccini cominciarono ad esistere quando i monaci decisero di porre sotto il convento i loro defunti e, appena si resero conto che lo spazio non era sufficiente, allargarono il sito sepolcrale sfruttando delle cavità naturali che si trovavano nel sottosuolo.

Poi i monaci scoprirono che ben 45 salme dei loro confratelli sepolti anni prima non si erano decomposte perché le condizioni naturali avevano permesso una incredibile imbalsamazione. I frati interpretarono questo avvenimento come un segno divino e decisero che da lì in avanti i morti sarebbero stati tutti imbalsamati e lasciati in esposizione.

Fu così che tutti  i corridoi delle catacombe cominciarono a riempirsi di salme mummificate, costituendo una sorta di ‘museo della morte’ che iniziò ad avere una certa fama tanto che, verso la fine del 1700, i frati decisero di consentire la sepoltura in quel luogo anche ai laici che potevano permettersi di pagare un imbalsamatore.

A tal fine il luogo ottenne una deroga al divieto napoleonico del 1710 di seppellire i morti in città e l’ordine di creare cimiteri fuori le mura e fuori le città, evento che portò il  Foscolo a scrivere “I Sepolcri”. Da allora queste catacombe si  riempirono di salme di personaggi illustri e le famiglie potevano poi andare a trovare i loro congiunti defunti e vederli nelle loro sembianze quasi intatte.

Uno dei corpi più noti, ed anche il più bello, è quello della piccola bambina Rosalia Lombardo. La sua mummificazione, fortemente voluta dal padre affranto, è infatti un capolavoro perché  ancora oggi la bimba ha le guancia rosee e paffute, i riccioli dorati che le incorniciano il volto, persino lunghe ciglia e sembra solo sprofondata nel sonno

Si dice addirittura che, grazie alle telecamere installate nella stanza dove si trova, gli addetti ai lavori abbiano notato che Rosalia apre e chiude gli occhi una volta al giorno forse a causa delle variazioni di umidità della stanza in cui si trova la mummia.

Rosalia Lombardo, deceduta nel 1920 di polmonite all’età di due anni, fu imbalsamata dal tassidermista siciliano Alfredo Salafia, che nel 1899 ottenne il permesso di sperimentare il suo innovativo composto sui cadaveri umani nella Scuola Anatomica del professor Randaccio.

Con l’aiuto di Anna, la pronipote di Salafia, fu trovato in seguito il manoscritto, che si pensava perduto, con la preziosa formula chimica che aveva consentito al dottore di imbalsamare cadaveri illustri, come quello anche dello statista Francesco Crispi.

Egli aveva iniettato nel corpo della bimba una miscela di formalina, glicerina, sali di zinco, alcool e acido salicilico ed aveva aggiunto al volto un trattamento con paraffina disciolta in etere, per mantenerle un aspetto vivo e rotondeggiante. Le analisi del cadavere della bimba hanno fatto rilevare inoltre la presenza di tutti gli organi interni che, invece, venivano asportati dagli antichi Egizi. La scoperta riveste un importante valore storico-medico perché è uno dei primi esempi di uso della formaldeide per l’imbalsamazione umana.

La salma di Rosalia fu portata dopo che il cimitero era stato ufficialmente chiuso ma  per lei si fece una deroga, come fu fatta anche per il viceconsole degli Stati Uniti Giovanni Paterniti. Oggi la ‘bella addormentata’ riposa in eterno con il suo fiocco giallo fra i capelli in una teca che ne garantisce una buona conservazione.

Guardate come ride

“Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! – Guardate piuttosto come ride.”

( Fëdor Michajlovič Dostoevskij )