XIII canto dell’Inferno: Pier delle Vigne nel VII cerchio dei suicidi

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Pier della Pigna, noto come Pier delle Vigne o della Vigna (1190 circa – 1249), nacque a Capua e dal 1220 diventò notaio al servizio dell’imperatore Federico II di Svevia facendo parte del gruppo di notai, letterati e calligrafi, cioè i dictatores che redigevano documenti, lettere e circolari dell’imperatore.

Nel 1224-25 fu anche giudice imperiale e dal 1239 fino al 1246 ricoprì la carica di logoteta per cui era superiore a tutti i notai, custode dei sigilli dell’Impero e addetto ai proclami emessi dall’imperatore.

Fu inoltre ambasciatore imperiale e soggiornò anche in Inghilterra nel 1235 per registrare il matrimonio fra l’imperatore Federico e Isabella, sorella di re Enrico III.  Nel corso della sua carriera accumulò molti terreni e residenze anche a Capua, Napoli, Aversa e Foggia.

Fu arrestato a Cremona nel 1249 come traditore e si è ipotizzata una congiura o un’accusa di corruzione. Di sicuro fu fatto accecare con un ferro rovente da Federico II a Pontremoli e poco dopo morì o assassinato a colpi di pietre o si suicidò sbattendo appositamente la testa contro un muro oppure semplicemente morì per le conseguenze dell’accecamento.

Pier della Vigna è considerato uno dei massimi esponenti della prosa latina medievale, la sua opera più nota è l’Epistolario latino, fece parte della commissione che presiedette alla realizzazione delle Costituzioni di Melfi (1231), corpo di leggi emanato da Federico II, considerato tra i più importanti nella storia del diritto, e contribuì anche allo sviluppo del volgare di scuola siciliana con alcune canzoni.

Nel XXIII canto, Dante lo colloca nel VII cerchio dell’Inferno dove sono puniti i violenti e, nel secondo girone, scontano la pena i suicidi che furono violenti contro se stessi.

Dante e Virgilio si trovano in un bosco tenebroso dove, sui i rami contorti e coperti di spine avvelenate, fanno il nido le Arpie, creature mostruose con viso umano e corpo di uccello che emettono sinistri lamenti. Dante pensa che i dannati siano nascosti fra i rovi:

Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse

che tante voci uscisser, tra quei bronchi,

da gente che per noi si nascondesse.

ma quando spezza il ramo di un grande arbusto, dalla pianta esce sangue scuro, accompagnato da un grido.

E’ Pier delle Vigne che Dante, ponendolo nella selva dei suicidi, non lo ritiene colpevole di tradimento. Da lui il poeta apprende che i suicidi sono stati trasformati in piante perché non sono degni di avere il corpo a cui hanno usato violenza e per questo, dopo il Giudizio Universale, saranno i soli a non rientrare nel proprio corpo ma lo trascineranno nel bosco per appenderlo ai rami della pianta in cui ora è chiusa la loro anima.

Pier delle Vigne racconta di essere riuscito a diventare l’uomo più autorevole della corte, l’unico confidente di Federico II e che questo grande potere aveva scatenato l’invidia dei cortigiani che l’accusarono di tradimento e gli resero nemico l’imperatore, a cui invece era sempre rimasto fedele. Non sopportando l’ingiusta condanna, egli si tolse la vita commettendo così un’ingiustizia nei confronti di se stesso.

L’anima conclude il racconto giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di essere innocente dell’accusa rivoltagli a suo tempo e pregando Dante di confortare la sua memoria, ancora abbattuta del colpo che le diede l’invidia, se mai ritornerà nel mondo.

I Korowai o Kolofu e il “sago grub”

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I Korowai, chiamati anche Kolufo, sono circa 3.000 e vivono nel sud-ovest della Papua occidentale, vicino al confine con la Papua Nuova Guinea. Fino alla fine degli anni ’70, quando gli antropologi cominciarono lo studio della tribù, i Korowai non erano a conoscenza dell’esistenza di popoli diversi da loro.

I Korowai sono cacciatori, raccoglitori e orticoltori ed hanno eccellenti capacità di caccia e pesca. Hanno alcune attività specifiche di genere, come la preparazione del sago e lo svolgimento di cerimonie religiose in cui sono coinvolti solo gli adulti maschi.

Per nutrirsi utilizzano tutte le risorse che fornisce loro la foresta: verdura, frutti tipici, come quello dell’albero del pane, selvaggina. Mangiano un po’ tutti gli animali, compresi serpenti, iguane e pipistrelli ma non si nutrono dell’animale totem che ogni clan possiede e che è considerato tabù.

Sono suddivisi in clan ed è diffusa la pratica del levirato in quanto nelle relazioni vige la predominanza dello zio e nel matrimonio, che è esogamico e poligamico, la preferenza è data a una relazione coniugale con la figlia del fratello della madre.

Le strutture di leadership si basano in prevalenza sulle qualità personali degli uomini, piuttosto che sull’istituzione. La guerra tra clan si verifica principalmente a causa di conflitti legati alla stregoneria.

Una volta nella vita, un clan Korowai deve organizzare un festival di sago grub per stimolare la prosperità e la fertilità in modo rituale.

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I Korowai hanno una ricca tradizione orale che comprende miti, racconti, parole magiche, amuleti e totem. Per quanto riguarda la morte e l’aldilà, credono nell’esistenza di uno specifico  tipo di reincarnazione: i morti possono essere rimandati in qualsiasi momento nella terra dei vivi, dai loro parenti nella terra dei morti, per reincarnarsi in un neonato del loro stesso clan.

Alcune storie vengono considerate sacre e sono riservate soltanto agli adulti come per esempio il racconto sull’origine del mondo. I Korowai credono che il mondo sia formato da tre cerchi concentrici.

Nel cerchio interno vivono le piante, gli animali e gli esseri umani. Quello intermedio è costituito dal regno dei morti, molto simile a quello degli uomini che sono ancora in vita, infatti è anch’esso diviso in clan e in diversi territori. Infine il cerchio più esterno è dominato dall’oceano, nel quale uomini ed animali verranno inghiottiti alla fine dei tempi.

L’universo di Korowai è pieno di tutti i tipi di spiriti e viene riverito in particolare il dio creatore dalla testa rossa Gimigi. Per loro è importante nella vita quotidiana onorare il loro “Unico Dio” usato come concetto di una divinità principale da cui tutti gli altri o discendono o a cui tutti gli altri rendono omaggio.

Alla fine degli anni ’70, alcuni missionari protestanti olandesi iniziarono a vivere tra fra loro e nel 1996 fu istituita una comunità cristiana locale ma per molto tempo i Korowai sono stati considerati eccezionalmente resistenti alla conversione religiosa; tuttavia, alla fine degli anni ’90 i primi convertiti al cristianesimo furono battezzati. 

I Korowai praticavano il cannibalismo rituale ma gli antropologi ritengono che il cannibalismo non sia più praticato dopo che hanno avuto frequenti contatti con gli estranei. Forse alcuni clan sono stati spinti a incoraggiare il turismo perpetuando il mito secondo cui il cannibalismo è ancora una pratica attiva.

Le palafitte delle loro case, ben al di sopra dei livelli delle acque alluvionali, servivano ad impedire ai clan rivali di catturare persone, specialmente donne e bambini, per schiavitù o cannibalismo e a proteggere la casa da attacchi incendiari.

Il motivo di questa scelta viene giustificato da loro con la possibilità di vedere più facilmente gli uccelli e le montagne lontane, ma in realtà serviva anche ad impedire agli stregoni malefici di entrare nelle loro case.

Viene scelto un banano piuttosto solido che deve costituire la base dell’abitazione, attorno ad esso viene costruita un’impalcatura momentanea per realizzare il pavimento della casa, l’impalcatura poi viene smontata e si può entrare solo attraverso una pertica intagliata come una scala.

Di solito gli uomini e le donne hanno degli spazi separati anche all’interno della stessa abitazione, a volte anche la scala e l’ingresso sono separati, così come il focolare della capanna. Il focolare è costituito da uno strato di rami intrecciati e ricoperti di foglie e d’argilla. Sotto il focolare c’è un buco e lo strato di rami, essendo appeso ad una corda, può essere tagliato se si verifica un pericolo di incendio.

Nelle capanne sugli alberi si allevano maialini da offrire anche come regali durante i matrimoni o per riappacificarsi dopo eventuali liti che coinvolgono le famiglie. In tempi di difficoltà li sacrificano anche agli spiriti degli antenati.

 

Canto XXXIII dell’Inferno: il conte Ugolino della Gherardesca nel IX Cerchio dei traditori.

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Il conte Ugolino della Gherardesca, nato a Pisa circa nel 1220, era discendente da una famiglia d’origine longobarda collegata agli Hohenstaufen e di fede ghibellina ma, diventato guelfo per convenienza politica, fu cacciato da Pisa e così partecipò all’azione militare di Lucca e Firenze che, coalizzate in Lega, nel 1276 sconfissero i Pisani.

Rientrato in città, il conte partecipò alla battaglia navale della Meloria del 1284 contro Genova dove Pisa fu però sconfitta. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, durante la battaglia, Ugolino non riuscì nemmeno a far dirigere alcuni vascelli a supporto di altri e si ritenne pertanto che avesse solo l’obiettivo di scappare come un disertore.

Nonostante queste accuse, egli fu nominato prima podestà (1284) e poi capitano del popolo (1286) assieme a Nino di Gallura che era suo nipote e figlio del guelfo Giovanni Visconti.

Quando poi le città guelfe di Firenze e Lucca attaccarono Pisa, Ugolino prima pacificò Firenze corrompendo alcune alte cariche fiorentine e poi cedette a Lucca i castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio, convenendo  in segreto di lasciarle senza difesa, pur sapendo che per Pisa erano punti chiave per la difesa. Egli decise però di non cedere a Genova la rocca di Castro, in Sardegna, in cambio della restituzione dei circa 10.000 prigionieri pisani della battaglia di Meloria.

Intanto a Pisa i ghibellini cominciavano a guardare il conte come un traditore  per essere stato guelfo in gioventù, per la “diserzione” della Meloria e per il sacrificio dei capi ghibellini prigionieri a Genova, destinati alla vendita come schiavi. Dall’altra parte i guelfi lo consideravano ambiguo per le proprie origini ghibelline e per le concessioni fatte ai nemici perchè troppo avido di ricchezze e potere.

Nel 1287 Ugolino decise di tradire il nipote Nino di Gallura per non dividere con lui il titolo di podestà e per avvicinarsi all’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini  che era a capo del patriziato ghibellino. Esiliò Nino che finì per allearsi con i Fiorentini e i Lucchesi contro i Pisani.

Sempre nel 1287, giunsero a Pisa degli ambasciatori genovesi per trattare la pace ed offrire la liberazione dei prigionieri della Meloria in cambio solo di una somma di denaro anziché la cessione del Castro.

Ugolino della Gherardesca, vedendo però nel ritorno dei prigionieri una minaccia al suo potere, rifiutò e le navi pisane cominciarono ad aggredire i mercantili genovesi nell’alto Tirreno, per mano dei corsari sardi.

Intanto Pisa soffriva di un drammatico caroviveri che limitava al minimo la circolazione delle merci e le principali derrate erano oberate da pesanti gabelle. Questa situazione creò un clima di scontro fra le grandi famiglie pisane guelfe e ghibelline.

Nel 1288 Ugolino ebbe un violento alterco con un proprio nipote durante il quale uccise un nipote dell’arcivescovo Ruggeri, arrivato in soccorso del giovane, e così il 1° luglio 1288, dopo avere partecipato ad un consiglio, Ugolino subì un violento attacco in cui morì Balduccio della Gherardesca, un suo figlio naturale.

Dopo un’accanita resistenza, Ugolino si chiuse coi familiari nel palazzo del Comune, dove si difese fino a sera e da dove uscì solo dopo che fu appiccato fuoco all’edificio. Ugolino con i figli Gaddo e Uguccione e i nipoti Anselmuccio e il Brigata (Nino), figli del suo primogenito Guelfo II furono allora rinchiusi nella Torre della Muda.

L’arcivescovo Ruggeri, autoproclamatosi podestà, nel marzo 1289 diede ordine di gettare la chiave della prigione nell’Arno e di lasciare i cinque prigionieri morire di fame dopo nove mesi di prigionia.

Dante Alighieri, vent’anni dopo la morte del conte, collocò Ugolino tra i traditori nell’ Antenora, la seconda zona del nono cerchio dell’Inferno dove vengono puniti i traditori. Ugolino appare immerso nelle acque gelate di Cocito mentre divora brutalmente la testa dell’arcivescovo Ruggieri.

Il poeta racconta che i prigionieri morirono per inedia lentamente tra atroci sofferenze e che, prima di morire, i figli di Ugolino pregarono il padre di cibarsi delle loro carni. Entro il sesto morirono tutti i figli ed i nipoti e per due giorni Ugolino, reso cieco dalla fame, brancolò sui loro corpi chiamandoli per nome ma poi il digiuno prevalse sul suo dolore. Raccontati gli eventi a Dante, il conte nel poema storce gli occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri.

Dante si abbandona allora una violenta invettiva contro la città di Pisa, patria di Ugolino, definita come la vergogna dei popoli di tutta Italia e, visto che le città vicine non la punivano, si augura che le isole di Capraia e Gorgona si muovano e chiudano la foce dell’Arno, in modo che anneghino tutti gli abitanti della città.

Nel poema, Ugolino afferma che “più che il dolor poté il digiuno” che si presta ad una duplice interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba dei figli e nell’altro, resiste alla fame e lascia che sia la fame a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli.

La prima interpretazione fece sì che Ugolino sia passato alla storia come il conte cannibale e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi (“ambo le man per lo dolor mi morsi”) per la costernazione.

Anche l’arcivescovo Ruggeri, secondo Dante, avrebbe fatto prigioniero Ugolino con il tradimento e per questo Dante collocò anche lui tra i traditori politici, con l’ulteriore pena di avere Ugolino che gli rode il cranio in eterno perchè ha condannato quattro innocenti a morire insieme ad un colpevole. La sua figura nel poema è completamente muta e assente, come pietrificato nel suo supplizio.

Il conte Ugolino viene messo all’Inferno perché traditore, eppure viene presentato come tradito anche se Dante parla soltanto di “voci” di tradimento e riferisce questa possibilità all’unico fatto d’aver ceduto dei castelli al nemico. 

Più che per essere stato traditore politico, Dante sembra infatti mettere Ugolino in questo cerchio come traditore della natura umana poichè non è capace di perdono e continua ad infierire sul proprio carnefice. Ugolino cerca di giustificarsi ma non suscita pietà e commozione perchè l’odio l’ha trasformato in una bestia feroce.

Dante ritiene quindi il tradimento dell’arcivescovo più grave di quello del conte e, pur condannandolo, riabilita Ugolino come padre per l’amore che provava verso i figli e i nipoti. Inoltre non mette in discussione che si dovesse usare per lui la morte per inedia come esecuzione capitale, ma semplicemente trova esecrabile il fatto che fossero state coinvolte anche persone innocenti

Nella realtà i figli e nipoti incarcerati con Ugolino non erano affatto piccoli, come appare nel canto, e furono catturati con le armi in mano. E’ inverosimile anche che essi avessero dato disponibilità ad essere mangiati dal conte e inoltre non avrebbe avuto senso farlo in quanto non esisteva alcuna possibilità di salvezza.

L’arcivescovo Ruggeri fu chiamato a Roma a rendere conto dell’operato presso la curia pontificia, ma si sa soltanto che in una delle tre convocazioni fu condannato in contumacia e che morì nel 1295 a Viterbo.

Nel 2002, l’antropologo Francesco Mallegni analizzò quelli che vennero considerati i resti di Ugolino e dei suoi familiari. Le analisi del DNA delle ossa evidenziarono che i resti umani appartenevano alla stessa famiglia e le analisi delle costole del presunto scheletro di Ugolino rilevarono tracce di magnesio ma non di zinco, che è invece evidente in caso di recente consumo di carne.

Infine Ugolino, per l’epoca, era un uomo molto anziano ed era quasi senza denti quando fu imprigionato e per questo è molto improbabile che sia sopravvissuto agli altri e abbia potuto cibarsene.

Canto V dell’Inferno: Paolo e Francesca nel II Cerchio dei Lussuriosi

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Nella Divina Commedia i grandi protagonisti del Canto V dell’Inferno, messi fra i Lussuriosi del II Cerchio, sono due personaggi storici veramente esistiti e cioè Francesca da Polenta figlia di Guido il Vecchio signore di Ravenna e Paolo Malatesta, figlio del signore di Rimini, che fu capitano del popolo a Firenze nel 1282-83.

La caratteristica del Cerchio dove si trovano i Lussuriosi è il lamento continuo e triste che riecheggia e Dante comprende che quelli sono i lamenti di chi ha peccato con la carne facendo vincere l’istinto sulla ragione e tutti si trovano in quel luogo perché morti in nome dell’amore.

Paolo Malatesta, già sposato e padre di due figli, cura il matrimonio che avviene per procura tra il fratello Gianciotto e la giovane Francesca. Paolo è bello ed aitante mentre Gianciotto è brutto e deforme ma lei, non conoscendo nessuno dei due, crede che il suo sposo sarà Paolo e invece si ritrova sposata con Gianciotto.

Dopo il 1275, Francesca aveva quindi sposato Gianciotto Malatesta ma poi, secondo il racconto di Dante, ebbe una relazione amorosa col cognato Paolo e i due, sorpresi dal marito di lei,  furono entrambi uccisi da lui.

Dante vede le due anime che volano affiancate e sbattute nella bufera infernale che trascina i lussuriosi e chiede a Virgilio il permesso di parlare con loro.  Francesca racconta la loro storia poi, su richiesta di Dante, spiega che la causa del loro peccato era stata la lettura di un romanzo che narrava dell’amore di Lancillotto e Ginevra. Quando erano arrivati alla pagina in cui Ginevra baciava Lancillotto, anche i due innamorati si erano baciati oltrepassando così il limite che separa la letteratura dalla vita reale :

“galeotto fu il libro e chi lo scrisse: | quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Il bacio caratterizza l’inizio della relazione amorosa ma vengono però visti da un altro fratello di Paolo, forse Malatestino dell’Occhio, così chiamato perché aveva un occhio solo “ma da quell’uno vedeva fin troppo bene”, che spiando s’accorge degli incontri segreti tra Paolo e Francesca e riferisce tutto a Gianciotto il quale, furioso, raggiunge i due innamorati e uccide prima la sposa e dopo il fratello Paolo. Mentre Francesca parla con Dante, Paolo invece tace ed alla fine del racconto piange mentre Dante, sopraffatto da pietà e turbamento, sviene.

L’amore si era manifestato quindi in modo immediato e inaspettato, a partire dal contatto visivo fra i due innamorati che, spinti dalla bellezza l’uno dell’altro, erano stati pervasi dalla passione amorosa. L’amore è pertanto un sentimento che ha una forza propria ed agisce con propria volontà sui cuori di chi ha deciso di far innamorare.

Secondo il pensiero medioevale un sentimento d’amore rivolto da una persona “gentile” non poteva non essere ricambiato ma, attraverso questo racconto, Dante compie però una parziale ritrattazione della sua precedente produzione poetica che, parlando d’amore, poteva spingere il lettore a mettere in pratica gli esempi letterari e a cadere nel peccato di lussuria.

La letteratura amorosa può portare alla perdizione se presa alla lettera come è accaduto a Francesca, che era lettrice colta ed esperta di poesia cortese, e Dante si sente chiamato in causa in quanto stilnovista e produttore di quella stessa letteratura che è costata ai due amanti la dannazione eterna.

In merito alla vicenda, sono nella realtà storica veramente riscontrabili però solo i dati anagrafici dei protagonisti e la loro discendenza. Pare infatti che l’alleanza tra le due famiglie fosse così vantaggiosa per entrambe, che il fatto di sangue diventò un fatto da mettere a tacere il più presto possibile.

Non è conosciuto con esattezza nemmeno dove sia avvenuto il duplice omicidio di Paolo e Francesca e alcune ipotesi indicano il Castello di Gradara, altri la Rocca di Castelnuovo nei pressi di Meldola, altri ancora la Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna.

Secondo alcuni studiosi, inoltre, l’assassinio della moglie Francesca da parte di Gianciotto avrebbe potuto avere uno scopo politico ammantato da “delitto d’onore”. Gianciotto, cioè, desideroso di procurarsi l’alleanza della città di Faenza aveva voluto sbarazzarsi della moglie per convolare a nozze più vantaggiose. Egli infatti, poco tempo dopo il delitto, sposò la faentina Zambrasina dei Zambrasi dalla quale ebbe poi sei figli.

Il difficile giudizio

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La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione fuggevole, l’esperimento pericoloso, il giudizio difficile

Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή, ὁ δὲ καιρὸς ὀξύς, ἡ δὲ πεῖρα σφαλερή, ἡ δὲ κρίσις χαλεπή

(Il medico Ippocrate di Kos)

Herd immunity ed il significato della compassione

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L’immunità di gregge in medicina è una forma di protezione indiretta che si verifica quando la vaccinazione o l’immunità verso una malattia infettiva, data dalla guarigione dalla malattia stessa di una parte significativa di popolazione,  forniscono una tutela anche agli individui ancora non immuni.

Secondo questo principio la catena dell’infezione si interrompe quando l’alta percentuale di persone ormai immuni fa diminuire la probabilità che altre persone non immuni entrino in contatto con l’agente patogeno. Il virus  cioè non trova soggetti recettivi disponibili e quindi circola meno, riducendo così il rischio complessivo nel gruppo.

Se ci sono molte persone immunizzate è come se ci siano delle piante tagliate, non più infettabili, che non saranno più raggiunte dal fuoco del virus e quindi l’incendio non si estenderà.

In assenza di un vaccino, l’immunità data dal superamento della malattia  presuppone però una scrematura e quindi l’obolo ed il sacrificio di chi non riesce a superare l’infezione. Ma qual’è il senso dell’altro, il significato della compassione?