
Il conte Ugolino della Gherardesca, nato a Pisa circa nel 1220, era discendente da una famiglia d’origine longobarda collegata agli Hohenstaufen e di fede ghibellina ma, diventato guelfo per convenienza politica, fu cacciato da Pisa e così partecipò all’azione militare di Lucca e Firenze che, coalizzate in Lega, nel 1276 sconfissero i Pisani.
Rientrato in città, il conte partecipò alla battaglia navale della Meloria del 1284 contro Genova dove Pisa fu però sconfitta. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, durante la battaglia, Ugolino non riuscì nemmeno a far dirigere alcuni vascelli a supporto di altri e si ritenne pertanto che avesse solo l’obiettivo di scappare come un disertore.
Nonostante queste accuse, egli fu nominato prima podestà (1284) e poi capitano del popolo (1286) assieme a Nino di Gallura che era suo nipote e figlio del guelfo Giovanni Visconti.
Quando poi le città guelfe di Firenze e Lucca attaccarono Pisa, Ugolino prima pacificò Firenze corrompendo alcune alte cariche fiorentine e poi cedette a Lucca i castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio, convenendo in segreto di lasciarle senza difesa, pur sapendo che per Pisa erano punti chiave per la difesa. Egli decise però di non cedere a Genova la rocca di Castro, in Sardegna, in cambio della restituzione dei circa 10.000 prigionieri pisani della battaglia di Meloria.
Intanto a Pisa i ghibellini cominciavano a guardare il conte come un traditore per essere stato guelfo in gioventù, per la “diserzione” della Meloria e per il sacrificio dei capi ghibellini prigionieri a Genova, destinati alla vendita come schiavi. Dall’altra parte i guelfi lo consideravano ambiguo per le proprie origini ghibelline e per le concessioni fatte ai nemici perchè troppo avido di ricchezze e potere.
Nel 1287 Ugolino decise di tradire il nipote Nino di Gallura per non dividere con lui il titolo di podestà e per avvicinarsi all’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini che era a capo del patriziato ghibellino. Esiliò Nino che finì per allearsi con i Fiorentini e i Lucchesi contro i Pisani.
Sempre nel 1287, giunsero a Pisa degli ambasciatori genovesi per trattare la pace ed offrire la liberazione dei prigionieri della Meloria in cambio solo di una somma di denaro anziché la cessione del Castro.
Ugolino della Gherardesca, vedendo però nel ritorno dei prigionieri una minaccia al suo potere, rifiutò e le navi pisane cominciarono ad aggredire i mercantili genovesi nell’alto Tirreno, per mano dei corsari sardi.
Intanto Pisa soffriva di un drammatico caroviveri che limitava al minimo la circolazione delle merci e le principali derrate erano oberate da pesanti gabelle. Questa situazione creò un clima di scontro fra le grandi famiglie pisane guelfe e ghibelline.
Nel 1288 Ugolino ebbe un violento alterco con un proprio nipote durante il quale uccise un nipote dell’arcivescovo Ruggeri, arrivato in soccorso del giovane, e così il 1° luglio 1288, dopo avere partecipato ad un consiglio, Ugolino subì un violento attacco in cui morì Balduccio della Gherardesca, un suo figlio naturale.
Dopo un’accanita resistenza, Ugolino si chiuse coi familiari nel palazzo del Comune, dove si difese fino a sera e da dove uscì solo dopo che fu appiccato fuoco all’edificio. Ugolino con i figli Gaddo e Uguccione e i nipoti Anselmuccio e il Brigata (Nino), figli del suo primogenito Guelfo II furono allora rinchiusi nella Torre della Muda.
L’arcivescovo Ruggeri, autoproclamatosi podestà, nel marzo 1289 diede ordine di gettare la chiave della prigione nell’Arno e di lasciare i cinque prigionieri morire di fame dopo nove mesi di prigionia.
Dante Alighieri, vent’anni dopo la morte del conte, collocò Ugolino tra i traditori nell’ Antenora, la seconda zona del nono cerchio dell’Inferno dove vengono puniti i traditori. Ugolino appare immerso nelle acque gelate di Cocito mentre divora brutalmente la testa dell’arcivescovo Ruggieri.
Il poeta racconta che i prigionieri morirono per inedia lentamente tra atroci sofferenze e che, prima di morire, i figli di Ugolino pregarono il padre di cibarsi delle loro carni. Entro il sesto morirono tutti i figli ed i nipoti e per due giorni Ugolino, reso cieco dalla fame, brancolò sui loro corpi chiamandoli per nome ma poi il digiuno prevalse sul suo dolore. Raccontati gli eventi a Dante, il conte nel poema storce gli occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri.
Dante si abbandona allora una violenta invettiva contro la città di Pisa, patria di Ugolino, definita come la vergogna dei popoli di tutta Italia e, visto che le città vicine non la punivano, si augura che le isole di Capraia e Gorgona si muovano e chiudano la foce dell’Arno, in modo che anneghino tutti gli abitanti della città.
Nel poema, Ugolino afferma che “più che il dolor poté il digiuno” che si presta ad una duplice interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba dei figli e nell’altro, resiste alla fame e lascia che sia la fame a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli.
La prima interpretazione fece sì che Ugolino sia passato alla storia come il conte cannibale e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi (“ambo le man per lo dolor mi morsi”) per la costernazione.
Anche l’arcivescovo Ruggeri, secondo Dante, avrebbe fatto prigioniero Ugolino con il tradimento e per questo Dante collocò anche lui tra i traditori politici, con l’ulteriore pena di avere Ugolino che gli rode il cranio in eterno perchè ha condannato quattro innocenti a morire insieme ad un colpevole. La sua figura nel poema è completamente muta e assente, come pietrificato nel suo supplizio.
Il conte Ugolino viene messo all’Inferno perché traditore, eppure viene presentato come tradito anche se Dante parla soltanto di “voci” di tradimento e riferisce questa possibilità all’unico fatto d’aver ceduto dei castelli al nemico.
Più che per essere stato traditore politico, Dante sembra infatti mettere Ugolino in questo cerchio come traditore della natura umana poichè non è capace di perdono e continua ad infierire sul proprio carnefice. Ugolino cerca di giustificarsi ma non suscita pietà e commozione perchè l’odio l’ha trasformato in una bestia feroce.
Dante ritiene quindi il tradimento dell’arcivescovo più grave di quello del conte e, pur condannandolo, riabilita Ugolino come padre per l’amore che provava verso i figli e i nipoti. Inoltre non mette in discussione che si dovesse usare per lui la morte per inedia come esecuzione capitale, ma semplicemente trova esecrabile il fatto che fossero state coinvolte anche persone innocenti
Nella realtà i figli e nipoti incarcerati con Ugolino non erano affatto piccoli, come appare nel canto, e furono catturati con le armi in mano. E’ inverosimile anche che essi avessero dato disponibilità ad essere mangiati dal conte e inoltre non avrebbe avuto senso farlo in quanto non esisteva alcuna possibilità di salvezza.
L’arcivescovo Ruggeri fu chiamato a Roma a rendere conto dell’operato presso la curia pontificia, ma si sa soltanto che in una delle tre convocazioni fu condannato in contumacia e che morì nel 1295 a Viterbo.
Nel 2002, l’antropologo Francesco Mallegni analizzò quelli che vennero considerati i resti di Ugolino e dei suoi familiari. Le analisi del DNA delle ossa evidenziarono che i resti umani appartenevano alla stessa famiglia e le analisi delle costole del presunto scheletro di Ugolino rilevarono tracce di magnesio ma non di zinco, che è invece evidente in caso di recente consumo di carne.
Infine Ugolino, per l’epoca, era un uomo molto anziano ed era quasi senza denti quando fu imprigionato e per questo è molto improbabile che sia sopravvissuto agli altri e abbia potuto cibarsene.