Richard Phillips Feynman, il padre delle nanotecnologie

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Richard Phillips Feynman (1918 – 1988), nacque a Manhattan da una famiglia ebraica ashkenazita di origini russe e polacche. Il padre Melville, un venditore di uniformi, stimolò la sua curiosità proponendogli, fin da piccolo, letture e problemi scientifici.

Feynman si dedicò da solo al calcolo differenziale  e arrivò a sviluppare una serie di strumenti per rappresentare e trattare le funzioni trigonometriche elementari. Questa abilità nel costruirsi strumenti applicativi su misura lo portò a sviluppare i diagrammi e gli integrali di Feynman. Si interessò anche di chimica, biologia ed elettronica.

Si laureò in fisica e mentre faceva il dottorato di ricerca, ebbe un posto all’interno del Progetto Manhattan, con il quale il governo degli Stati Uniti voleva sviluppare la prima bomba nucleare.

Feynman vide l’esplosione nucleare di Trinity a occhio nudo, con la sola protezione del vetro del parabrezza di un autocarro per schermare le radiazioni ionizzanti nocive e questo forse gli causò danni futuri alla sua salute.

Feynman ebbe anche emozioni contrastanti sul progetto a causa degli effetti della bomba atomica sganciata sul Giappone nel 1945. Nel 1946, mentre si trovava a Los Alamos la sua prima moglie Arlene morì di tubercolosi.

Dopo la guerra riprese a sviluppare un metodo per calcolare le probabilità di transizione  da uno stato quantistico a un altro. Sviluppò così un nuovo formalismo per la meccanica quantistica, denominato integrale sui cammini, grazie al quale poté elaborare in seguito l’elettrodinamica quantistica, che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1965 assieme ad altri due scienziati.

Elaborò delle formule, note come formule di Feynman, attraverso cui è possibile dedurre i potenziali ritardati di Liènard e Wiechert. Dall’espressione formale di questi potenziali in particolare risaltava il ruolo del tempo e delle sue relative simmetrie nei fenomeni elettromagnetici.

Si occupò di superfluidità, superconduttività e del decadimento beta dei neutroni. Le lezioni di fisica tenute negli anni 1962 – 1964 sono state raccolte in una serie di volumi apprezzati da generazioni di fisici.

Feynman entrò nella commissione Rogers, incaricata nel 1986 dal presidente Reagan di indagare sulle cause del disastro dello Space Shuttle Challenger e dimostrò che il materiale usato negli O-ring dello shuttle era diventato meno resiliente con il freddo della notte precedente il lancio. Feynman nel suo libro Che t’importa di ciò che dice la gente ha rivelato anche una disconnessione tra gli ingegneri della NASA e i dirigenti.

Aveva anche un senso dell’umorismo fuori dal comune e un carattere eccentrico e originale. Adorava la musica e suonava il bongo, talvolta con una band, in locali notturni e adorava le arti figurative: eseguiva ritratti femminili a matita che firmava come ‘Ofey’, talvolta nudi raffiguranti prostitute o spogliarelliste che frequentavano i bar dove Feynman si esibiva come musicista.

Quando fu arruolato nell’esercito durante la guerra, ebbe incarichi scientifici riguardanti la balistica ma si divertiva ad aprire quasi ogni serratura o cassaforte, gettando regolarmente nel panico i responsabili della sicurezza del progetto. Scoprì a guerra finita, durante la tradizionale visita medica di leva, di non raggiungere un profilo psichico sufficientemente equilibrato per poter vestire la divisa.

Nutriva anche insofferenza verso gli impegni ufficiali e le regole della società che  manifestò anche in occasione dell’assegnazione del Nobel. Egli possedeva un piccolo furgone-automobile decorato con i diagrammi da lui inventati e a cui aveva installato la targa personalizzata (possibile nella legislazione californiana) con la scritta QANTUM. In questo furgone spesso ospitava gli studenti tanto da diventare uno dei professori universitari più popolari.

Richard Feynman fu colpito nel 1979 da due rare forme di tumore: il liposarcoma e la macroglobulinemia di Waldenstrom e morì a 69 anni. E’ ritenuto il padre delle nanotecnologie poichè aveva considerato per la prima volta nel 1959 la possibilità di manipolazione diretta degli atomi nella sintesi chimica. È inoltre considerato uno degli ispiratori del computer quantistico.

Sarah Forbes Bonetta, la figlioccia della regina Vittoria

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Sarah Forbes Bonetta era nata probabilmente nel 1843 in una famiglia reale della Nigeria sud-occidentale e il suo nome originario era Aina. La sua famiglia fu uccisa, durante un attacco al loro villaggio compiuto dall’ esercito del Dahomey  quando lei aveva cinque anni . Essendo lei una  principessa Egbado Omoba, come rivelavano anche  i segni tribali che aveva sul viso, fu risparmiata e rimase prigioniera per due anni.

Dopo fu consegnata a Fredrick Forbes, comandante della Royal Navy, nel corso dei  negoziati che tentavano di convincere re Ghezo del Dahomey a porre fine alla tratta degli schiavi. La piccola principessa era un “regalo dal re dei neri alla regina dei bianchi, la regina Vittoria”.

Il comandante durante il viaggio verso l’Inghilterra, chiamò la bambina Sarah e le diede come cognome il proprio al quale aggiunse il nome della nave che era la HMS Bonetta. La regina Vittoria si affezionò molto a Sarah e fece in modo che ricevesse un’ottima istruzione.

Sarah imparò  in breve tempo la lingua inglese e si dimostò molto brava nella  musica e nelle arti. Purtroppo, dopo appena un anno dal suo arrivo in Inghilterra, il comandante Forbes, che l’aveva accolta nella sua casa, morì prematuramente.

La piccola fu affidata ad una famiglia di missionari che viveva nel Kent, ma si ammalò di una tosse persistente, che fece consigliare ai medici un suo ritorno in Africa. In Sierra Leone frequentò un istituto femminile, mantenendo i rapporti sia con la signora Forbes sia con la regina Vittoria.

Tuttavia Sarah era infelice in Africa e fece ritorno nel Regno Unito nel 1855, dove continuò gli studi. A 18 anni Sarah ricevette una proposta di matrimonio da parte di James Pinson Labulo Davies, un ricco uomo d’affari africano che viveva in Gran Bretagna. Dopo aver inizialmente declinato la proposta, Sarah fu convinta dalla regina ad accettare. La coppia si sposò con una cerimonia molto sfarzosa: Sarah arrivò accompagnata da 10 carrozze trainate da cavalli e 16 damigelle.

Subito dopo il matrimonio si trasferì in Sierra Leone, patria di Davies. La coppia ebbe tre figli e alla primogenita venne dato il nome Vittoria, in onore della regina, che fece da madrina.

Sarah tornò diverse volte in Inghilterra con la figlia, proprio per fare visita alla regina, che si occupò della piccola Vittoria anche dopo la morte della madre. La tosse persistente di Sarah era in realtà tubercolosi e nel 1880 morì la figlioccia nera della regina Vittoria.

Le spietate amazzoni del regno di Dahomey

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Il regno di Dahomey, con capitale ad Abomey, venne fondato attorno al 1600 dal popolo Fon, da poco insediato nell’area, che si contraddistinse per aver perpetrato uno stato di guerra continuo con i vicini, soprattutto contro gli Yoruba della Nigeria, finalizzato a rendere il proprio territorio sempre più vasto e potente.

Il Palazzo Reale di Abomey è oggi una delle principali attrazioni del Benin insieme a tanti altri palazzi, restaurati e recuperati completamente, ricchi di sculture, bassorilievi e murales dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità nel 1985.

Questi palazzi in passato erano difesi da un esercito di donne-guerriere, chiamate “amazzoni” dai conquistatori europei che in origine erano addette alla guardia personale dei regnanti. Poi nel 1880, con l’inizio dell’espansionismo coloniale francese, il sovrano inserì le donne nell’esercito regolare e così venne formato un esercito composto da 12.000 guerrieri, un terzo dei quali erano donne.

Le ragazze venivano reclutate durante l’adolescenza in base alla loro forza fisica e psicologica e poi, una volta selezionate, dovevano giurare fedeltà al re e fare voto di castità. Armate di un lungo coltello simile a un machete, un rasoio e un fucile a pietra focaia, tenevano spesso un chiodo legato al polso e si limavano i denti per renderli più affilati.

Fondamentale nella formazione di queste guerriere, oltre alle tecniche di sopravvivenza e alla disciplina, era anche la capacità di essere spietate. Uno dei test che le aspiranti amazzoni dovevano superare consisteva nel gettare dei prigionieri di guerra da un’altezza che era mortale.

Quando i francesi cercarono per la prima volta di colonizzare il paese, nel 1890, trovarono una strenua resistenza proprio in queste guerriere che avevano l’abitudine di sgozzare i soldati francesi.

In casi estremi le Amazzoni usavano la tecnica di combattimento da loro preferita, il corpo a corpo. Mentre i francesi cercavano di mantenerle a distanza, esse cercavano lo scontro fisico diretto e si catapultavano rotolando sotto le baionette dei soldati per affrontarli.

I francesi rimasero molto sorpresi dal loro coraggio e dal fatto che non esitavano a decapitare i nemici uccisi, per ritornare all’attacco impugnando le loro teste. Spesso, uscivano vincenti dagli scontri corpo a corpo e i soldati francesi nutrivano un gran terrore di cadere tra le mani di queste Amazzoni.

Alla fine il Dahomey divenne un protettorato francese, ma solo dopo che la Francia mise in campo la Legione Straniera e le sue mitragliatrici. Nonostante la loro indomabile resistenza, le Amazzoni furono trucidate in massa.

Catullo: “Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo”.

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(De Chirico)

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo.

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto.

(traduzione di Salvatore Quasimodo)

Carmina,V

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum,
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Fernanda Wittgens, la salvatrice di opere d’arte

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Fernanda Wittgens (1903 – 1957) fu la prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera. Nacque a Milano da Margherita Righini e Adolfo Wittgens, di origine svizzera, professore di lettere al liceo Parini e traduttore che educò  i suoi sette figli all’amore per l’arte.

Fernanda nel 1925 si laureò in Lettere con una tesi in storia dell’arte e poi con altri studiosi scrisse alcuni libri scolastici. Dopo aver lavorato come insegnante presso i Licei Parini e Manzoni, nel 1928 conobbe Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca e soprintendente  alle Gallerie della Lombardia.

Venne assunta a Brera nel 1928 come “operaia avventizia” ma svolse fin quasi da subito funzioni tecniche e amministrative da ispettrice, divenendo nel 1931  assistente di Modigliani e poi nel 1933 ispettrice.

Modigliani essendo ebreo, dopo le leggi razziali del 1938, fu perseguitato e mandato al confino ma Fernanda continuò la sua opera, lo teneva informato sulla sua attività e poi firmò, come prestanome, l’opera Mentore di Modigliani che fu pubblicata nel 1940.

Sempre nel 1940, Fernanda Wittgens vinse il concorso ed ebbe la carica direttoria della Pinacoteca di Brera e si prodigò per mettere in salvo dai bombardamenti e dalle razzie naziste tutte le opere di Brera, del Museo Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’ Ospedale Maggiore. Riuscì in questa impresa nonostante i mezzi  di fortuna e i frequenti bombardamenti su Milano.

Inoltre fin dallo scoppio della guerra Fernanda cercò di aiutare ad espatriare familiari, amici, ebrei, tra cui il suo docente universitario Paolo D’Ancona, e i perseguitati dal regime di ogni tipo. Collaborò con lei il cugino e coetaneo Gianni Mattioli che poi divenne un grande collezionista d’arte.

Nel 1944 a causa della delazione di un giovane ebreo tedesco collaborazionista, al quale lei aveva organizzato l’espatrio, ella venne arrestata. Giudicata colpevole e nemica del fascismo, fu condannata a 4 anni di prigione.

Dopo 7 mesi di detenzione la famiglia presentò un falso certificato di tisi e nel 1945 fu scarcerata. Nominata pro-direttore e commissario per l’Accademia delle Belle Arti di Brera, convinse le autorità ad assumersi l’impegno per una sua totale ricostruzione. Nel 1946 fu reintegrato anche Ettore Modigliani e, dopo la sua morte nel 1947, lei fu nominata Soprintendente.

I lavori di ricostruzione della Pinacoteca terminarono nel 1950  e nello stesso anno, assieme a Portaluppi, Fernanda progettò un piano regolatore per la “grande Brera”, che prevedeva un collegamento tra la Pinacoteca, l’Accademia di Belle Arti, la Biblioteca, l’Osservatorio Astronomico e l’Istituto Lombardo di Scienze e lettere.

Sempre nello stesso anno, venne nominata anche soprintendente alle Gallerie della Lombardia e si occupò della ricostruzione del Museo teatrale alla Scala e del Poldi Pezzoli e anche del restauro del Cenacolo di Leonardo.

Dal 1951 la Pinacoteca fu centro di innovativi eventi espositivi e didattici, visite guidate da personale specializzato per bambini, disabili e  pensionati che venivano sollecitati ad una partecipazione attiva. Riuscì a fare acquistare al Comune di Milano, anche attraverso una raccolta fondi, la Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti.

Nel 1955 la Wittgens venne premiata con una medaglia d’oro da parte dell’Unione delle comunità israelitiche per l’opera di soccorso nei confronti degli ebrei perseguitati. Nel 1956 rifiutò la proposta di  presentarsi alle elezioni amministrative con la lista del Fronte laico perchè riteneva che la sua libertà fosse per lei condizione assoluta di vita.

Morì nel 1957, la camera ardente fu allestita davanti all’ingresso della Pinacoteca, in cima allo scalone d’onore, e vi partecipano migliaia di persone. Nel 2014 le furono  dedicati un albero e un cippo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano mentre nel 2018 le venne dedicato il Bar Fernanda interno alla Pinacoteca di Brera.

La leggenda di Tristano ed Isotta

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La leggenda di Tristano ed Isotta è una storia antichissima che ha origini nei racconti popolari e orali delle popolazioni celtiche e si svolge fra la Cornovaglia, l’Irlanda e la Bretagna. Le prime attestazioni scritte sono del Dodicesimo secolo: due versioni in anglonormanno e normanno di Thomas e Béroul.

Tristano,orfano, viene cresciuto da suo zio Marco, re di Cornovaglia che, per questioni politiche, è tenuto a pagare un sostanzioso tributo all’Irlanda. Tristano, divenuto adulto e un valoroso guerriero, decide di liberare la Cornovaglia e sconfigge Moroldo, il gigante fratello del re d’Irlanda.

Tristano rimane però ferito nel duello e, moribondo lontano dalla corte mentre cerca di tornare in Cornovaglia e, creduto un uomo qualunque, viene curato dalla bellissima figlia del re irlandese, Isotta. Quando ormai guarito ritorna in Cornovaglia, Tristano porta con se un capello biondo di Isotta: quando re Marco lo vede, decide di sposare Isotta.

Tristano torna in Irlanda come messaggero e Isotta acconsente a sposare re Marco per porre fine alla rivalità fra i due regni. Isotta consegna alla sua balia, Brangania, un filtro d’amore che bevuto dopo le nozze con re Marco li farà innamorare perdutamente l’uno dell’altra, garantendole così un matrimonio felice e non solo d’interesse.

A  bere il filtro è però, per errore, Tristano. Lui e Isotta si innamorano follemente e  Tristano si trova nella terribile situazione di essere innamorato della sposa dello zio che lo ha cresciuto con amore e verso il quale è legato come parente ma anche  come suddito.

Alla fine i due innamorati sono scoperti e Tristano decide di lasciare Isotta e si reca in Bretagna con l’intento di stare lontano dalla corte e dalla sua amata. In Bretagna Tristano conosce e sposa, senza amore, Isotta dalle Bianche Mani ma la nostalgia per Isotta è troppo grande e comincia allora a fare una serie di viaggi verso la Cornovaglia.

Si reca, travestito, alla corte di re Marco per rivedere Isotta, ma suo cognato, Caerdino, offeso dall’oltraggio che Tristano sta facendo a sua sorella (non aveva consumato il matrimonio con Isotta dalle Bianche Mani), lo segue. Caerdino, dopo aver visto Isotta comprende però l’amore che il cognato prova e lo perdona.

Isotta dalle Bianche Mani cerca però di vendicarsi. Tristano è stato ferito durante una spedizione ed è morente nel suo letto. Chiede che venga chiamata Isotta dalla Cornovaglia perché è convinto che solo la sua presenza potrà guarirlo dal male. Per sapere se la nave, di ritorno dalla Cornovaglia, porta con sé l’amata chiede che vengano issate delle vele bianche o nere a seconda della presenza o meno della donna sulla nave.

La moglie di Tristano mente a Tristano e gli rivela che la nave sta giungendo con le vele nere. Tristano decide allora di lasciarsi morire e allora Isotta si uccide sul corpo di Tristano. I due vengono fatti tornare in Cornovaglia per volere di Isotta dalle Bianche mani, che si è pentita di quello che ha fatt, e vengono sepolti vicini.

Il sistema feudale che caratterizza questa e ogni altra opera nata nel Medioevo cortese, imponeva il completo rispetto delle gerarchie. Tristano è nipote ma anche suddito di re Marco e la fedeltà verso il re avrebbe dovuto  essere una priorità assoluta e pertanto è da considerarsi un traditore.

La sua colpa è però mitigata dal filtro magico  in quanto Tristano e Isotta non sono veri traditori ma vittime di un sortilegio e pertanto non posso fare nulla per contrastare il loro amore.

Anche se non vuoi

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Stavamo finendo il pranzo. Era un pranzo normale, niente di eccessivo, qualche portata, un po’ di vino in tavola. Perché uno si aspetta che gli avvenimenti importanti vengano preceduti da segnali inconsueti o singolari, invece ogni evento è così naturale che diventa una specie di legittimo prolungamento delle cose.

Guardai sbadatamente fuori dalla finestra: una leggera brezza primaverile faceva ondeggiare delicatamente le foglie dell’albero di melo sotto il quale mi sedevo con  mia madre quando ero una bambina e le osservai danzare bizzarre e briose  mentre sbattevano rumorose e lievi  sul rugoso e largo davanzale.

Mi accorsi ad un tratto che mio padre stava parlando di qualcuno che si era voluto fare del male ed era quasi morto. Mio padre era molto preoccupato e riteneva suo dovere in qualche modo intervenire. Criticava aspramente le persone che si disinteressavano dei problemi e cercavano di non affrontarli ed intanto sospirava ritmicamente continuando a soffiarsi rumorosamente il naso.

Trovavo il suo racconto decisamente noioso e mi girava la testa mentre cercavo di guardarlo attraverso il cristallo della bottiglia che risplendeva di una intensa luce azzurrognola tanto da rischiarare anche la rigida tovaglia di fine broccato. Osservavo i suoi capelli brizzolati tagliati a spazzola, il naso imponente e le mani ferme e rugose adagiate sulla tavola. Parlava, parlava ed io intanto guardavo fuori verso il mio giardino incantato.

D’estate quando il caldo mi soffocava prendevo un lenzuolo, aprivo la porta finestra del piano terra e mi sdraiavo in mezzo all’erba. Restavo ore ed ore a scrutare  la coltre di stelle splendente  che mi osservava dall’alto. Mi dava un grande senso di soggezione e di solitudine che mi faceva sentire piccola ed inutile.  Però a volte mi pareva  consolatorio prendere coscienza  di non appartenere a nessuno. Era persino dolce sentire che ogni mio sguardo o dolore  avvolgeva il tempo e lo spazio che mi circondava e poi mi  ritornava indietro languidamente. Così non  perdevo niente e nessuno mi rubava niente.

Mi accorsi d’ un tratto che mio padre mi stava informando che sarei dovuta partire  presto, molto presto e che sarei stata lontana per lungo tempo. Sarebbe stato tutto perfetto, diceva, le persone accoglienti, il posto rilassante e i compagni poco invadenti….

Riguardai di nuovo fuori dalla finestra. Ricordai che quando restavo sdraiata nel giardino a volte recitavo piccole poesie che inventavo sul momento e declinavo versi al cielo ed all’amore finchè copiose lacrime non mi scendevano sulle guance e poi mi rotolavano rovinosamente sul petto. Una notte improvvisamente scoppiò un acquazzone violento. Sembrava che il cielo si fosse proprio arrabbiato e mentre calde gocce di pioggia martoriavano il mio corpo fragile e selvaggio, guardavo in alto e vedevo nel buio profondo striature gialle e uno spicchio di luna che, a sprazzi, si affacciava minacciosa ed arcigna e mi rinfacciava le bugie dette e le  emozioni espresse prive di ogni comune sostanza.

A questo punto mio padre si mise in piedi,  alzò il calice di vino e con la voce rotta dai singhiozzi chiese di  brindare alla vita, alla mia partenza ed al futuro pieno di speranza.

Anche io mi alzai da tavola appoggiando faticosamente le mani sul tavolo e provai subito una pungente fitta di dolore. I polsi mi facevano ancora molto male anche se erano stretti dalle bende sulle quali si intravvedevano piccole gocce di sangue rappreso. Mi sentivo molto calda ed i brividi cominciarono a  scuotermi. Ma era cosa di poco conto. Non volevo partire, avevo appena sentito dire che un’ altra persona, lei sì, si era fatta veramente tanto male.