Anche se non vuoi

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Stavamo finendo il pranzo. Era un pranzo normale, niente di eccessivo, qualche portata, un po’ di vino in tavola. Perché uno si aspetta che gli avvenimenti importanti vengano preceduti da segnali inconsueti o singolari, invece ogni evento è così naturale che diventa una specie di legittimo prolungamento delle cose.

Guardai sbadatamente fuori dalla finestra: una leggera brezza primaverile faceva ondeggiare delicatamente le foglie dell’albero di melo sotto il quale mi sedevo con  mia madre quando ero una bambina e le osservai danzare bizzarre e briose  mentre sbattevano rumorose e lievi  sul rugoso e largo davanzale.

Mi accorsi ad un tratto che mio padre stava parlando di qualcuno che si era voluto fare del male ed era quasi morto. Mio padre era molto preoccupato e riteneva suo dovere in qualche modo intervenire. Criticava aspramente le persone che si disinteressavano dei problemi e cercavano di non affrontarli ed intanto sospirava ritmicamente continuando a soffiarsi rumorosamente il naso.

Trovavo il suo racconto decisamente noioso e mi girava la testa mentre cercavo di guardarlo attraverso il cristallo della bottiglia che risplendeva di una intensa luce azzurrognola tanto da rischiarare anche la rigida tovaglia di fine broccato. Osservavo i suoi capelli brizzolati tagliati a spazzola, il naso imponente e le mani ferme e rugose adagiate sulla tavola. Parlava, parlava ed io intanto guardavo fuori verso il mio giardino incantato.

D’estate quando il caldo mi soffocava prendevo un lenzuolo, aprivo la porta finestra del piano terra e mi sdraiavo in mezzo all’erba. Restavo ore ed ore a scrutare  la coltre di stelle splendente  che mi osservava dall’alto. Mi dava un grande senso di soggezione e di solitudine che mi faceva sentire piccola ed inutile.  Però a volte mi pareva  consolatorio prendere coscienza  di non appartenere a nessuno. Era persino dolce sentire che ogni mio sguardo o dolore  avvolgeva il tempo e lo spazio che mi circondava e poi mi  ritornava indietro languidamente. Così non  perdevo niente e nessuno mi rubava niente.

Mi accorsi d’ un tratto che mio padre mi stava informando che sarei dovuta partire  presto, molto presto e che sarei stata lontana per lungo tempo. Sarebbe stato tutto perfetto, diceva, le persone accoglienti, il posto rilassante e i compagni poco invadenti….

Riguardai di nuovo fuori dalla finestra. Ricordai che quando restavo sdraiata nel giardino a volte recitavo piccole poesie che inventavo sul momento e declinavo versi al cielo ed all’amore finchè copiose lacrime non mi scendevano sulle guance e poi mi rotolavano rovinosamente sul petto. Una notte improvvisamente scoppiò un acquazzone violento. Sembrava che il cielo si fosse proprio arrabbiato e mentre calde gocce di pioggia martoriavano il mio corpo fragile e selvaggio, guardavo in alto e vedevo nel buio profondo striature gialle e uno spicchio di luna che, a sprazzi, si affacciava minacciosa ed arcigna e mi rinfacciava le bugie dette e le  emozioni espresse prive di ogni comune sostanza.

A questo punto mio padre si mise in piedi,  alzò il calice di vino e con la voce rotta dai singhiozzi chiese di  brindare alla vita, alla mia partenza ed al futuro pieno di speranza.

Anche io mi alzai da tavola appoggiando faticosamente le mani sul tavolo e provai subito una pungente fitta di dolore. I polsi mi facevano ancora molto male anche se erano stretti dalle bende sulle quali si intravvedevano piccole gocce di sangue rappreso. Mi sentivo molto calda ed i brividi cominciarono a  scuotermi. Ma era cosa di poco conto. Non volevo partire, avevo appena sentito dire che un’ altra persona, lei sì, si era fatta veramente tanto male.

 

 

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