Gli idiomi walser

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La parola walser deriva dal tedesco walliser, che significa abitante del cantone Vallese, in Svizzera, dove questa popolazione di origine germanica si insediò intorno all’VIII secolo. Le ondate migratorie successive avvennero a seguito di condizioni climatiche particolarmente favorevoli e così i walliser attraversarono le Alpi e si insediarono  in Piemonte e Valle d’Aosta all’inizio del XIII secolo.

La lingua di questa popolazione è quindi di origine germanica e appartiene al gruppo dei dialetti alemanni dell’alto tedesco, diffuso nella parte più orientale della Svizzera. Nel corso dei secoli l’influenza delle parlate locali portò mutamenti e gli idiomi walser si diversificarono a seconda delle zone di insediamento.
La parlata di Gressoney è considerata la più antica perché è quella che ha subito minori contaminazioni, mentre quella di Formazza e Macugnaga ha risentito maggiormente dell’interazione con il vicino Vallese, e quella di Alagna, Rima e Rimella dell’interazione con l’italiano.
Al di là delle varianti, gli idiomi «titzschu» o «titsch» – così la gente delle valli definisce la propria lingua – sono accomunati da alcune marcate caratteristiche tipiche delle lingue germaniche, quali la presenza della declinazione di sostantivi e aggettivi (come nel tedesco, che ha conservato i casi nominativo, genitivo e dativo), e dei tre generi, maschile, femminile e neutro. 
A partire dal XVIII secolo si trovano le prime testimonianze scritte, costituite da lettere di emigrati o documenti manoscritti da parroci. Le donne e gli anziani hanno tuttavia mantenuto viva questa lingua, che si è tramandata oralmente di generazione in generazione, anche grazie all’usanza di tenere la famiglia riunita davanti al tepore della stube, con il racconto di filastrocche e leggende nelle lunghe sere d’inverno.

Numerose iniziative vengono promosse per la tutela di questo patrimonio linguistico, per garantire la memoria storica e valorizzare questo patrimonio culturale e per questo in Valsesia è stato creato un polo museale dedicato alle tradizioni e alle attività contadine locali.

 

Apollo 13 : “Houston, we’ve had a problem here”

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Obiettivo della missione Apollo 13 era sbarcare sulla Luna, sull’altopiano di Fra Mauro. L’equipaggio avrebbe dovuto raccogliere rocce e lasciare sulla Luna un modulo in grado di effettuare alcune analisi dell’ambiente selenico.

Il lancio era previsto alle ore 19:13 del giorno 11 aprile 1970. Alla partenza giunti al secondo stadio, il motore centrale dei cinque a disposizione non funzionò ma ugualmente si arrivò al terzo stadio e  l’Apollo 13, detto “Tredici“, lasciò l’orbita terrestre.

Dopo 55 ore di viaggio la Luna era in vista e Houston comandò di miscelare l’idrogeno nei serbatoi per tenerlo fluido ma una scintilla dovuta ai cavi accese un incendio facendo esplodere il serbatoio dell’ossigeno.

Jim Lovell prese la radio e comunicò una delle frasi più famose della storia astronautica:

 “Ok Houston, abbiamo avuto un problema qui.

Ripetete per piacere

Uh, Houston, abbiamo avuto un problema

 L’ossigeno stava terminando e perciò la missione fu annullata: lo scopo di Houston ora era soltanto riportare a casa gli astronauti.

La nave non aveva abbastanza energia per girarsi e tornare indietro e  Houston decise allora di sfruttare l’effetto di fionda gravitazionale della Luna: la nave sarebbe arrivata fino alla Luna, avrebbe sfruttato la sua massa e gravità per una ulteriore spinta che l’avrebbe riportata a Terra con una traiettoria libera.

L’equipaggio fu spostato sul LEM, che era stato progettato per ospitare due persone per due giorni e non tre persone per quattro giorni e quindi vi era l’impossibilità di far fronte al sostentamento idrico (acqua potabile) e al necessario filtro di anidride carbonica ma anche questo problema fu risolto costruendo a bordo un apposito filtro.

Fondamentale era accelerare la navicella per guadagnare tempo e fare in modo che ossigeno e acqua potessero bastare. Fu risolto anche un ulteriore problema dato dai suoi motori che erano stati progettati per una sola accensione mentre ne risultavano necessarie almeno due

Poi nelle vicinanze della Terra gli astronauti si spostarono nella capsula dell’Apollo, l’unica dotata del necessario scudo termico in grado di far fronte alle elevatissime temperature del rientro in atmosfera.

Una traiettoria di rientro troppo inclinata avrebbe fatto prender fuoco al modulo dell’Apollo mentre una traiettoria poco inclinata avrebbe fatto rimbalzare il modulo sull’atmosfera, perdendolo nello spazio.

 

Si attesero con ansia i minuti di blackout, che si verificano sempre al rientro in atmosfera: infiniti nel caso dell’Apollo 13 che vide i minuti di silenzio passare dai canonici 3 a più di 5.

Finalmente il 17 aprile 1970 alle ore 13.07 l’Apollo 13 ammaro’  nell’Oceano Pacifico e l’equipaggio venne tratto in salvo.

La nave “Sovereign of the Seas” o il “Diavolo d’oro”

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La Sovereign of the Seas fu voluta nel 1637 da Carlo I d’Inghilterra che desiderava fosse costruita una nave gigante con 118 sabordi (portelli) e 102 cannoni di bronzo che poi furono ridotti a 90. Era la nave più sontuosa della Royal Navy, completamente ricoperta da poppa a prua da decorazioni scolpite nel legno e dipinte in oro, con le insegne Reali  ricoperte d’oro zecchino, che risaltavano sul fondo nero in stile barocco.

Il veliero fu costruito essenzialmente per affermare, anche politicamente, il prestigio della corona inglese e per ribadire il preteso antico diritto dei sovrani inglesi di essere riconosciuti “signori dei mari”.

Nel 1650 con l’avvento del Commonwealth of England, che abolì ogni riferimento alla monarchia, la nave fu ribattezzata solo Sovereign e l‘anno successivo fu ristrutturata e resa più manovrabile. Prese così parte a tutte le maggiori battaglie navali combattute contro le Province Unite e la Francia e fu chiamata “il diavolo d’oro” dagli olandesi.

Tra il 1658 e il 1660, il veliero fu  ribattezzato Royal Sovereign e nuovamente ristrutturato come vascello di prima classe con cento cannoni. In questa fase molte delle decorazioni intagliate furono rimosse.

Nel 1685 la nave venne sottoposta ad una terza ristrutturazione e la polena che fino ad allora rappresentava un cavaliere fu sostituita con la figura di un leone. Prese parte alla Guerra della lega di Augusta contro Luigi XIV di Francia come ammiraglia, quando era già vecchia di cinquant’anni, e fu la prima nave a montare la quarta vela su di un albero e la terza vela sull’albero di mezzana.

La Sovereign cominciò però ad avere falle e avarie durante il regno di Guglielmo III d’Inghilterra e, mentre era immobilizzata nei cantieri di Chatam, il 27 gennaio 1696 finì la sua storia bruciata da un incendio fino alla linea di galleggiamento.

 

Le isole Keros e Daskalio

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Keros è un’ isola greca delle piccole Cicladi, disabitata dal 1968,  fra le più importanti  per ricchezza di reperti archeologici. Un decreto dello Stato, ancora vigente, ha vietato la residenza stabile a Keros ma non è servito a preservarla da furti archeologici e dal contrabbando dei reperti. Alcune sepolture della prima età del bronzo e i loro ricchi corredi erano note fin dal XIX secolo e altri ritrovamenti effettuati anche nelle isole circostanti hanno prodotto abbondante materiale del periodo protocicladico (2.600 a.C. -2200 a.C.), denominato civiltà di Syros-Keros.

Nell’antichità l’isola era denominata Kereia e fece parte della Lega delio-attica, nel medioevo fu covo di pirati mentre in tempi più recenti fu proprietà privata del monastero della Madonna Chozoviotissa.

Daskalio è il nome di una piccola isola che nell’antichità era unita a Keros da un ponte naturale e nel cui golfo esisteva il principale centro dell’isola le cui rovine sono oggi visibili nel fondo del mare. L’isola di Daskaledista oggi 50 metri da Keros.

Nel 1884 furono ritrovate le statuette di marmo del ‘Arpista’ e del ‘Pifferaio’ e altre due statuette di donna con le mani incrociate sul petto, esempi classici del periodo Protocicladico. Furono trovati anche un gran numero di statuette di marmo, busti e teste, vasi di marmo e di ceramica, lame di ossidiana ed altri oggetti.

I successivi scavi e i nuovi ritrovamenti hanno indotto ad ipotizzare l’esistenza  di un tempio sacro, per tutte le Cicladi, risalente alla prima epoca del bronzo. L’attento studio degli oggetti frantumati ritrovati indica che sono stati appositamente rotti durante le cerimonie religiose. Era probabilmente un centro regionale per atti di culto nella fine del 3° millennio a.C, forse il primo tempio religioso dell’Egeo e forse il primo tempio isolano al mondo.

Daskalio somiglia a una piramide luminosa che sorge dalle acque e sotto quei gradoni bianchi che permettevano ai pellegrini di scalare la piramide di roccia, sono state rinvenute delle opere ingegneristiche e di artigianato decisamente molto antichi. Sono stati trovati due siti per la lavorazione del metallo e una complessa rete di canali di scolo, realizzati mille anni prima del Palazzo di Cnosso, a Creta.

Keros si raggiunge preferibilmente da Pano Koufonissi, tramite imbarcazioni private, e da questa isola nelle notti di luna piena, guardando la forma del crinale delle montagne, Keros appare come una donna incinta sdraiata con la testa unita a quella di un uomo barbuto.

 

Lo stile portoghese manuelino

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Il nome di questo stile sontuoso fu coniato nel 1842 da Francisco Adolfo de Varnhagen, Visconte di Porto Seguro,  in onore di Manuele I del Portogallo (1492 – 1521) perchè sotto il suo regno furono costruiti la maggior parte degli edifici in questo stile. Lo stile fu influenzato dai grandi successi ottenuti dalla flotta portoghese che aveva raggiunto le coste dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. In quell’epoca i navigatori portoghesi fecero conoscere al mondo civiltà lontane e molti artisti stranieri si trasferirono in Portogallo e da questo incontro di culture nacque lo stile manuelino, un’interpretazione particolare del gotico.

Questo stile durò molto poco ma riveste una grande importanza nella storia dell’arte  del Portogallo perchè glorificava il potere marittimo portoghese e venne utilizzato nella costruzione di chiese, monasteri, palazzi e castelli, oltre che nella scultura e nella pittura, nella lavorazione dei metalli preziosi e nella costruzione di arredamento. Questo stile è caratterizzato da strutture molto complesse realizzate in portali, finestre, colonne ed arcate a volte dall’aspetto eccessivo.

Molti edifici manuelini furono distrutti dal terremoto e dal successivo maremoto di Lisbona del 1755  e quindi furono completamente distrutti il Palazzo Reale e l’Ospedale di Tutti i Santi oltre a numerose chiese. A Lisbona esiste ancora però il Monastero dos Jeronimos e la Torre di Belem e nel centro della città, il portale della chiesa di Nossa Senhora da Conceição Velha. Altro edificio realizzato nello stile manuelino è il Convento di Cristo a Tomar dove si può ammirare la grande finestra della sala capitolare, con le sue sculture di funi attorcigliate ed elementi botanici.

Lo stile si diffuse per tutto l’impero portoghese fino alle isoleAzzorre, a Madera, al Brasile, a Goa, Macao, all’India, al sud della Spagna, nelle Isole Canarie, nel Nord africa e nelle colonie di Perù e Messico.